Risarcimento per stress lavorativo: la guida completa. IDFOX Agenzia Investigativa Milano
Risarcimento danni per stress lavoro-correlato. Secondo la Cassazione non rileva se si tratti di mobbing o straining: quel che conta è la violazione dell’obbligo di tutelare la salute del dipendente.
In un mondo dove le pressioni lavorative sono all’ordine del giorno e gli obiettivi di risultato sono condizione per fare carriera, sempre più lavoratori si trovano a fare i conti con lo straining o “stress lavoro correlato”, che può sfociare in sindromi ansiose e, a volte, depressive. Ebbene, cosa fare quando il carico di lavoro diventa insostenibile e le sue conseguenze si riflettono sulla salute psicofisica del dipendente? In questa guida ci focalizzeremo proprio sul risarcimento per stress lavorativo e vedremo come la giurisprudenza riconosca, in ipotesi del genere, la causa di servizio.
Indice
* Cos’è lo straining e come ti riguarda?
* Il diritto al risarcimento
* Come avviare la tua causa di servizio
* Obbligo del datore di garantire la salute sul lavoro
* La conflittualità nell’ambiente di lavoro
* Cos’è lo straining
* Quando c’è straining?
* In assenza di mobbing, il giudice deve qualificare la domanda come straining
Cos’è lo straining e come ti riguarda?
Lo straining si manifesta quando il lavoro diventa una fonte di stanchezza cronica, a causa di carichi eccessivi, mansioni logoranti, orari insostenibili o ambienti poco stimolanti. Può portare a:
* ansia e stress;
* disturbi del sonno e depressione;
* diminuzione della produttività.
La legge è chiara: il datore di lavoro ha l’obbligo di proteggere l’integrità fisica e mentale dei suoi dipendenti, evitando condizioni lavorative che possano nuocere alla loro salute (art. 2087 cod. civ.).
Il diritto al risarcimento
Se lo stress lavorativo ha compromesso il tuo benessere, sappi che hai il diritto di chiedere un risarcimento. Non è necessario dimostrare una situazione di mobbing e quindi la malafede del datore di lavoro. Non devi fornire la prova che questi ti sta perseguitato. La Cassazione ha stabilito che, anche in assenza di prove del mobbing da parte del datore, il lavoratore ha diritto al risarcimento se riesce a dimostrare che il proprio malessere è una diretta conseguenza delle condizioni di lavoro (devi cioè dimostrare il cosiddetto “rapporto di causalità”).
Come avviare la tua causa di servizio
Per intraprendere la causa di servizio contro l’azienda, avrai bisogno di:
* certificazione medica che attesti la tua condizione di stress lavoro-correlato;
* prove documentali o testimonianze che evidenzino le condizioni di lavoro stressogene (straordinari oltre le 48 ore settimanali, negazione di ferie e riposi, lavoro notturno continuo ecc.).
Ricorda, la legge è dalla tua parte. La normativa vigente, compresi l’art. 28 del T.U. n. 81 del 2008 e l’art. 2087 del Codice civile, impongono al datore di valutare e prevenire i rischi per la salute dei lavoratori, stress lavoro-correlato incluso.
La giurisprudenza ha riconosciuto in diverse occasioni il diritto al risarcimento per malattie professionali derivanti da stress lavorativo, sia nel settore privato che in quello pubblico.
La protezione del benessere psicologico e della personalità del dipendente costituisce – dunque – un preciso dovere del datore di lavoro a garanzia di un ambiente lavorativo sereno, in grado di favorire il pieno sviluppo delle professionalità. Non a caso, ribadendo il principio contenuto nel più volte citato articoli 2087 del Codice civile, il D.Lgs. 09 aprile 2008, n. 81 («Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro») – accogliendo la definizione di “salute” fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità quale «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità» – ha esplicitamente collocato fra i “pericoli” lavorativi che ogni datore di lavoro è obbligato a verificare quelli «riguardanti i gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza (…), nonché quelli connessi alla differenze di genere».
Obbligo del datore di garantire la salute sul lavoro
La salute del lavoratore non riguarda solo il benessere fisico ma abbraccia ogni aspetto dell’integrità personale, inclusi la qualità della vita, la dignità e lo stato psicologico. La nostra Costituzione, con gli articoli 2, 3 e 32, sancisce chiaramente che il diritto alla salute è fondamentale e inviolabile, non solo come diritto individuale di ogni cittadino-lavoratore, ma anche come valore imprescindibile per la collettività.
In questo contesto, l’articolo 41, comma 2, della Costituzione delinea un principio fondamentale: l’iniziativa economica, sebbene libera, non può prescindere dalla sicurezza, dalla salute e dal rispetto della dignità umana dei lavoratori.
L’articolo 2087 del Codice civile pone un obbligo chiaro al datore di lavoro: non solo rispettare le misure di sicurezza specifiche previste dalla legge per determinate attività, ma anche adottare tutte quelle iniziative aggiuntive necessarie a fronteggiare i rischi specifici legati all’ambiente lavorativo. Questo obbligo si basa su tre pilastri fondamentali:
* la particolarità del lavoro: ogni ambiente lavorativo è unico e presenta sfide specifiche che richiedono soluzioni su misura per garantire la sicurezza e il benessere dei lavoratori;
* l’esperienza: la storia e l’esperienza accumulata nel tempo nel settore di riferimento offrono preziose indicazioni su come migliorare continuamente le condizioni di lavoro;
* la tecnica: l’innovazione tecnologica e l’avanzamento delle metodologie di lavoro devono essere sempre orientati a migliorare la sicurezza e il benessere sul posto di lavoro.
La normativa non si ferma alle disposizioni generali, ma richiede un impegno attivo e costante da parte dei datori di lavoro per individuare e implementare le soluzioni più efficaci per la tutela della salute dei lavoratori. In questo modo, la legge riconosce e valorizza l’importanza di un ambiente lavorativo sicuro, rispettoso e dignitoso, pilastro fondamentale per lo sviluppo sostenibile dell’attività economica e per il benessere della società nel suo insieme.
La conflittualità nell’ambiente di lavoro
L’ambiente lavorativo è un tessuto complesso di relazioni e interazioni, che richiede una gestione attenta e sensibile per prevenire l’insorgere di dinamiche potenzialmente dannose. Quest’ultime, se trascurate, possono minare non solo il benessere dei singoli lavoratori ma anche l’equilibrio e la produttività dell’intera organizzazione.
In questo intricato scenario, lo stress occupazionale emerge come uno dei principali fattori di rischio psicosociale, spesso scatenato da un mix di esigenze lavorative intense, complesse e protratte nel tempo. Tuttavia, non sono solo le richieste lavorative a contribuire allo stress: anche gli aspetti emotivi, fisici e sociali dell’ambiente di lavoro giocano un ruolo significativo.
Lo stress lavorativo non è semplicemente una questione di pressione sul lavoro; è una condizione che si manifesta con una serie di segnali di allarme, come cambiamenti comportamentali, cognitivi e persino biochimici, risultato dell’incapacità di far fronte alle pressioni e alle sfide dell’ambiente lavorativo. Questi indicatori non dovrebbero essere ignorati, poiché possono indicare problemi più profondi che necessitano di intervento.
Inoltre, circostanze lavorative come la dequalificazione prolungata, la privazione delle proprie mansioni, o l’isolamento professionale possono esacerbare la situazione, trasformando l’ambiente di lavoro in un campo minato di tensioni e conflitti.
La responsabilità di prevenire e gestire tali dinamiche ricade sul datore di lavoro, come sottolineato dalla nostra Costituzione e dal Codice civile. Questi testi normativi stabiliscono chiaramente gli obblighi dei datori di lavoro di proteggere la salute e il benessere dei lavoratori, sia dal punto di vista fisico che psicologico.
Gestire la conflittualità in ambiente lavorativo richiede quindi non solo una buona dose di sensibilità e attenzione alle esigenze dei lavoratori, ma anche un impegno proattivo nel creare un ambiente di lavoro che valorizzi il benessere, la collaborazione e il rispetto reciproco. In questo modo, si possono navigare le acque a volte turbolente delle dinamiche lavorative, garantendo un clima lavorativo sano e produttivo per tutti.
Cos’è lo straining
Il concetto di straining, ovvero lo stress lavorativo prolungato che trascende il normale affaticamento e si manifesta con effetti nocivi sulla salute del lavoratore, ha guadagnato attenzione e riconoscimento nella giurisprudenza italiana, segnando un passo importante verso una più ampia tutela dei diritti dei lavoratori.
La sentenza pionieristica del 21 aprile 2005 del Tribunale di Bergamo ha posto le basi per questa nuova consapevolezza, affrontando il caso di una lavoratrice relegata in una prolungata inattività forzata. Il supporto della consulenza dello psicologo Herald Ege ha evidenziato come, nonostante la presenza di alcuni elementi tipici del mobbing, la situazione vissuta dalla lavoratrice fosse chiaramente ascrivibile allo straining, con un impatto diretto sulla sua salute.
Un ulteriore approfondimento è stato fornito dalla sentenza del Tribunale di Sondrio del 7 giugno 2007, che ha esaminato il caso di un dipendente vittima di spostamenti d’ufficio e di una progressiva marginalizzazione. Anche in questa circostanza, il quadro delineato dal consulente tecnico ha ricondotto le azioni subite dal lavoratore allo straining, nonostante l’assenza di una sistematicità e regolarità nelle azioni ostili tipiche del mobbing.
La pronuncia più significativa in materia è tuttavia quella della IV Sezione penale della Corte di Cassazione (n. 28603/2013), che ha riconosciuto il ricorso di un dipendente bancario, vittima di un progressivo declassamento professionale e di critiche infondate, culminati in un evidente stato di malessere tale da precludergli l’attività lavorativa per oltre 40 giorni.
Queste pronunce delineano i contorni dello straining, distinguendolo dal mobbing per la sporadicità delle azioni ostili ma riconoscendone l’equivalente impatto devastante su autostima, salute e qualità di vita del lavoratore.
Nonostante i confini tra mobbing e straining possano talvolta apparire sfumati, la giurisprudenza chiarisce che per lo straining è sufficiente dimostrare la violazione dei doveri di protezione da parte del datore di lavoro, a differenza del mobbing che richiede una sistematicità e una carica emotiva più marcata nelle vessazioni. Il mobbing richiede cioè la prova dell’intento persecutorio; nello straining questa prova non è necessaria.
Importante sottolineare che la condotta di straining, pur non necessitando del criterio della continuità nel tempo, può essere oggetto di sanzioni sia in ambito civile, ai sensi dell’articolo 2087 del Codice civile, sia in quello penale, qualora sussistano i presupposti dei maltrattamenti.
Quando c’è straining?
Come evidenziato dalla sentenza Cassazione civile, sezione Lavoro, 19 febbraio 2016 n. 3291, sette sarebbero i requisiti dello straining, così riassunti:
* ambiente lavorativo: lo straining, così come il mobbing, è un fenomeno che si sviluppa e prende forma nei luoghi di lavoro;
* frequenza: a differenza del mobbing (che richiede comportamenti vessatori che si verificano almeno 1 volta al mese), nello straining può essere sufficiente anche una sola azione lesiva, purchè le conseguenze risultino avere una durata costante;
* durata: come nel mobbing il conflitto deve perdurare per almeno sei mesi;
* tipo di azioni: azioni che debbono tradursi in condotte ostili come: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, mutamento di mansioni, attacchi alla reputazione, violenza e minaccia di violenza;
* dislivello tra gli antagonisti: la vittima di straining deve essere cosciente della sua posizione di inferiorità rispetto al suo carnefice e tale soggezione può andare oltre quella naturale che normalmente si rinviene nel rapporto lavoratore/datore;
* andamento secondo fasi successive: occorre, cioè, che la vessazione abbia almeno raggiunto l’isolamento sistematico;
* intento persecutorio: è necessario, quindi, che venga riscontrato un obiettivo discriminatorio.
In assenza di mobbing, il giudice deve qualificare la domanda come straining
Secondo l’orientamento consolidato giurisprudenziale della Corte di legittimità, lo “straining” rappresenta una forma attenuata di “mobbing” in quanto priva della continuità dei comportamenti pregiudizievoli del datore di lavoro, ma sempre riconducibile all’articolo 2087 del Codice civile, con la conseguenza che, ove venga accertato lo “straining” e non il “mobbing”, la domanda di risarcimento deve essere comunque accolta (Cassazione n. 29101/2023) anche se, in sede di ricorso, il lavoratore abbia fatto riferimento solo al mobbing. Infatti, “si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio» (così, Cassazione n. 3822/2024). In sostanza, secondo la Corte Suprema, la reiterazione, l’intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento (così Cassazione n. 29101/2023 citata).