Corte di Cassazione, la n. 46855 del 22 novembre 2023 commentata nell’articolo “La condanna di un preposto per non avere sospesa un’attività pericolosa”,
Si rincorrono le sentenze a carico dei preposti, siano essi di diritto che di fatto, una figura in realtà prevista nella organizzazione della sicurezza delle aziende fin dal 1955 con il D.P.R. n. 547, contenente le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ma che poi, con l’introduzione delle direttive europee e in particolare del D. Lgs. n. 626 nel 1994 e del successivo D. Lgs. n. 81 nel 2008, ha acquisita sempre maggiore importanza per il compito allo stesso affidato di vigilare e sovrintendere i lavoratori nonché di segnalare ai datori di lavoro qualsiasi deficienza di mezzi, attrezzature o dispositivi di protezione
individuali. È una osservazione questa che appena un mese fa abbiamo fatto nel pubblicare un’altra sentenza della stessa Sezione IV della Corte di Cassazione, la n. 46855 del 22 novembre 2023 commentata nell’articolo “La condanna di un preposto per non avere sospesa un’attività pericolosa”, con la quale era stato condannato un preposto per non avere sospeso l’attività in un cantiere considerata la presenza di una situazione pericolosa che ha poi portato all’infortunio mortale di un lavoratore.
Di recente il legislatore, come è noto, ha voluto ampliare i compiti assegnati alla figura del preposto apportando delle modifiche all’art. 19 del D. Lgs. n. 81/2008 riguardante gli obblighi posti a suo carico. Nel comma 1 di tale articolo infatti è stato aggiunto il compito per lo stesso di intervenire per modificare il comportamento dei singoli lavoratori e di interrompere anche la loro attività, se non conforme alle disposizioni di legge e aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fornendo le necessarie
indicazioni di sicurezza e informando i diretti superiori. Con l’introduzione poi nello stesso comma di una ulteriore lettera, la f-bis, è stato attribuito al preposto anche il compito, nel caso che venissero rilevate delle deficienze sia dei mezzi che delle attrezzature di lavoro o comunque delle condizioni di pericolo, di interrompere temporaneamente l’attività e di segnalare tempestivamente al datore di lavoro e al dirigente le non conformità rilevate.
Nel caso in esame il capo squadra di una impresa subappaltatrice era stato condannato nei due primi gradi di giudizio perché ritenuto responsabile, quale preposto di fatto, dell’infortunio di un lavoratore rimasto colpito a un occhio da un chiodo schizzato da una muratura e che stava rimuovendo mediante una attrezzatura non idonea e per non essere intervenuto a sospendere quella operazione essendo il
lavoratore privo degli occhiali di protezione. L’imputato ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione per l’annullamento della sentenza di condanna, basandolo essenzialmente sul fatto che l’ordine di effettuare quella operazione era stato dato direttamente dal capo cantiere, ma la stessa lo ha comunque rigettato sostenendo che, essendo presente sul posto, avrebbe dovuto adottare una maggiore vigilanza sull’utilizzo da parte del lavoratore degli occhiali antinfortunistici e sarebbe dovuto intervenire a sospendere quella pericolosa operazione.
Il fatto, l’iter giudiziario il ricorso per cassazione e le motivazioni.
La Corte di Appello ha confermata la sentenza con cui il Tribunale aveva ritenuto il capo squadra di una impresa alla quale erano stati affidati dei lavori in subappalto in un cantiere colpevole dei reati di cui all’art. 590 c.p., commi 1, 2 e 3 e di cui al D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 art. 19, comma 1, lett. a) e, concesse le circostanze attenuanti generiche, e unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, lo aveva condannato alla pena di due mesi di reclusione e di 200 euro di multa, oltre alla condanna al risarcimento dei danni in favore dell’Inail da quantificarsi in sede civile.
Il procedimento aveva avuto ad oggetto l’infortunio occorso a un lavoratore mentre era intento a tagliare una fila di chiodi in acciaio infissi in una parete di calcestruzzo lunga circa 30 m, lavorazione compiuta dapprima mediante una macchina smerigliatrice detta flex grande e quindi, non riuscendo a togliere l’ultimo chiodo per la mancanza di un attrezzo più idoneo, utilizzando un martello con cui dava un colpo al chiodo che spezzatosi rimbalzava contro il muro trasversale attingendolo all’occhio. Il lavoratore al momento dell’infortunio era privo di occhiali protettivi sicché l’impatto gli provocava una lesione consistita in “trauma bulbare perforante OD”, che rendeva necessario un intervento chirurgico con prognosi di 283 giorni.
Il giudice di primo grado aveva concluso che sull’imputato gravava l’obbligo di sovrintendere sull’osservanza degli obblighi di legge da parte dei lavoratori in quanto investito dei poteri di superiore diretto quale preposto di fatto. Lo stesso pertanto, secondo il Tribunale, doveva vigilare sulle modalità
di svolgimento del lavoro e pretendere che fossero utilizzati i dispositivi di protezione individuale, obbligo che nella specie non era stato osservato. Anche il giudice di appello aveva fondato il giudizio di
responsabilità nei confronti dell’imputato sulla circostanza che lo stesso quale capo squadra era colui che doveva ripartire quotidianamente i compiti e poteva e doveva pretendere l’osservanza delle disposizioni in materia antinfortunistica.
Avverso la sentenza d’appello l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del difensore di fiducia, con un unico articolato motivo con il quale ha dedotto in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) ed e), l’inosservanza e l’erronea applicazione del D. Lgs. n. 81 del 2008 art. 590 c.p., art. 2 lett. e) e art. 19 nonché la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione risultante dall’atto in relazione all’omessa valutazione della interruzione causale tra la sua originaria condotta e la verificazione dell’evento secondo le specifiche modalità adottate dal lavoratore infortunato nonché in relazione alla affermata incontrovertibilità della mancanza di D.P.I. durante la fase di lavorazione.
Era stato contestato, da un lato, la sussistenza degli elementi del reato di cui all’art. 590 c.p. e dall’altro la qualifica di preposto di fatto riconosciuta dai giudici del merito in capo al ricorrente, assumendo che la sentenza impugnata era giunta ad affermare la sua responsabilità senza individuare l’elemento fondante della sua colpa considerato che era risultato che il capo cantiere aveva incaricato il lavoratore di cercare un flex piccolo per togliere il chiodo e di terminare il lavoro in fretta. Le azioni del lavoratore quindi, secondo il ricorrente, da tale momento erano sfuggite completamente al suo controllo ed al conseguente suo obbligo di vigilanza per essere attratte nella sfera del capo cantiere.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Le doglianze difensive del ricorrente sono state ritenute infondate da parte della Corte di Cassazione. Il ricorrente infatti ha proposto una serie di censure che sono state incentrate sulla motivazione adottata dalla Corte territoriale con riguardo al ruolo di preposto di fatto allo stesso attribuito lamentando come la stessa fosse risultata apodittica anche in ragione della circostanza che nel cantiere vi era un capo cantiere il quale avrebbe chiesto al lavoratore infortunato di finire in fretta il lavoro di rimozione dei chiodi.
La suprema Corte ha in primis rilevato che il reato di cui all’art 19, comma 1, lett. a) contestato
all’imputato, essendo stato superato il termine massimo di prescrizione di cinque anni, è risultato estinto
per intervenuta prescrizione. Venendo poi al ruolo rivestito dall’imputato in relazione alla contestazione principale, la sentenza impugnata ha chiarito che lo stesso aveva rivestito di fatto la qualifica di preposto per conto dell’impresa che nel cantiere stava eseguendo i lavori concessi in subappalto. Dalle prove testimoniali assunte, infatti, ed in particolare dalle dichiarazioni rese dal lavoratore
infortunato, era risultato che era l’imputato che sovraintendeva all’attività lavorativa e garantiva l’attuazione delle direttive ricevute controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori. È quindi risultato destituito di fondamento l’argomento agitato dalla difesa dell’imputato secondo cui il lavoratore era stato incaricato di effettuare la rimozione del chiodo dal capo cantiere, atteso che quest’ultimo pacificamente era alle dipendenze dell’impresa appaltatrice e non gerarchicamente sovraordinato al lavoratore stesso.
Quanto poi alla responsabilità dell’imputato. in relazione al ruolo dal medesimo ricoperto nella vicenda di cui al processo, la Sezione IV ha rilevato che “in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, indipendentemente dalla sua funzione nell’organigramma
dell’azienda”. In altri termini, pur in mancanza di un’investitura formale, il preposto di fatto è colui
che esercita in concreto gli stessi poteri di un preposto assumendo di conseguenza la relativa posizione di garanzia dovendo garantire la sicurezza del lavoro e sovraintendere alle attività, impartendo istruzioni, dirigendo gli operai e attuando quindi le direttive ricevute dal datore di lavoro.
Ebbene nel caso in esame, ha così concluso la suprema Corte, l’imputato ricopriva tale ruolo ed oltre ad essere presente in cantiere era tenuto a vigilare sulla corretta esecuzione dei lavori, assicurandosi dell’utilizzo dei dispositivi antinfortunistici, a maggior ragione a fronte di una manovra
oggettivamente pericolosa, quale era quella di togliere un chiodo da un muro utilizzando uno strumento del tutto inappropriato, per il potenziale distacco di schegge con pericolo di offesa agli occhi, dovendo in assenza delle dovute cautele ordinare la sospensione dei lavori, vigilanza che nella specie si rendeva tanto più esigibile e pregnante proprio in ragione della coesistenza di più ditte nello stesso cantiere e di un contesto in cui si incrociavano e si sovrapponevano le mansioni ed i ruoli ed in cui la specifica lavorazione sembrava dover essere ultimata con urgenza. Proprio detta situazione richiedeva, pertanto, una maggiore vigilanza sul corretto utilizzo dei presidi infortunistici (occhiali antinfortunistici), tanto più se, come riferito dal lavoratore, questi li teneva sopra l’elmetto, essendo esigibile da parte del preposto, anche per la sua vicinanza alle fonti di rischio, una costante vigilanza sull’operato dei lavoratori presenti nel cantiere.
La Corte di Cassazione ha pertanto annullata la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente al reato di cui all’art. 19, comma 1, lett. a) perché estinto per prescrizione rideterminando per l’effetto la pena in un mese e venti giorni di reclusione e 180 euro di multa, rigettando il ricorso nel resto. Il
ricorrente è stato altresì condannato a rifondere alla parte civile Inail le spese sostenute nel giudizio di legittimità liquidate in 3000 euro oltre accessori come per legge.
Gerardo Porreca
Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 51459 del 28 dicembre 2023 (u.p. 8 novembre 2023) – Pres. DI Salvo – Est. Cirese – Ric. omissis. – In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, indipendentemente dalla sua funzione nell’organigramma dell’azienda.