Restituzione assegno di mantenimento: quando?

Le somme indebitamente pagate vanno restituite se viene meno il titolo giudiziale che le aveva disposte, in modo che chi le ha ricevute non ne aveva diritto.

L’assegno di mantenimento disposto dopo la separazione o il divorzio non è per sempre: non rappresenta un vitalizio al quale si ha diritto a tempo indeterminato. Le condizioni che ne avevano imposto l’applicazione possono variare nel tempo, e allora si procederà a una riduzione o alla revoca; oppure potrebbe venire meno la statuizione originaria, cioè il titolo in base al quale l’emolumento è stato disposto (la sentenza di separazione o di divorzio può essere annullata per vari motivi). Che succede se chi ha pagato l’assegno mensile, anche per lunghi periodi, in seguito acquisisce il diritto, sancito da una nuova sentenza, a non corrisponderlo più? Quando c’è la restituzione dell’assegno di mantenimento versato in passato?

Vediamo cosa può fare chi ha dato somme non dovute a titolo di assegno di mantenimento o divorzile, e se chi le ha ricevute ha ormai acquisito il diritto di trattenerle oppure no e in tal caso è obbligato alla loro restituzione. La Corte di Cassazione ha avuto a lungo una linea oscillante, ma oggi sembra propendere per l’obbligo di restituzione, come ha sancito una nuova sentenza.

In base a un principio generale, i pagamenti non dovuti vanno restituiti, ma non è questa, secondo la Suprema Corte, l’unica norma applicabile a questi complessi casi: bisogna tener conto delle peculiarità in base alle quali l’assegno di mantenimento è stato disposto e solo se e quando esse mutano può sorgere il diritto di chi le ha versate a chiederne ed ottenerne la restituzione.

 

Revisione e revoca del mantenimento

Quando mutano le condizioni economiche degli ex coniugi o il loro status – ad esempio, se il beneficiario dell’assegno si risposa, ottiene un lavoro ben remunerato o una cospicua eredità o intraprende una nuova convivenza o relazione stabile con un altro partner in grado di mantenerlo – la parte interessata presenta un ricorso al giudice per ottenere la revisione del mantenimento, con la riduzione dell’importo periodicamente dovuto o anche la revoca totale.

I «giustificati motivi» posti a sostegno della revisione dell’assegno devono consistere sempre in fatti sopravvenuti alla precedente sentenza di separazione o di divorzio che aveva disposto l’obbligo di versamento della somma, perché altrimenti si intendono già debitamente considerati valutati in quella sede.

Inoltre, la nuova pronuncia del giudice non ha effetto retroattivo e dunque le nuove condizioni valgono dal momento di deposito della sentenza (o al massimo dalla data della domanda della parte, ma non prima) e si cristallizzano nel momento in cui la sentenza diviene definitiva. Dunque, di regola, le statuizioni giudiziarie che rettificano il mantenimento non producono effetti per i periodi pregressi.

 

Revoca retroattiva del mantenimento: è possibile?

L’unico caso concreto in cui è possibile ottenere la revoca retroattiva dell’obbligo di versamento dell’assegno di mantenimento è quello delle nuove nozze dell’ex coniuge beneficiario. Infatti, se egli si è risposato perde automaticamente il diritto a percepire l’assegno divorzile e ciò avviene per legge, dunque anche prima che il giudice dichiari la formale cessazione dell’emolumento.

È quanto accade quando il coniuge obbligato viene a sapere, solo a distanza di tempo, che il suo ex ha contratto un nuovo matrimonio. In quel momento, presenterà la domanda giudiziale per ottenere la revoca (altrimenti, pur essendo venuto meno il presupposto, dovrebbe continuare a versare l’assegno), ma la pronuncia che accerta il cambiamento di stato del beneficiario, e dunque la non debenza dell’assegno divorzile, avrà effetto retroattivo dalla data del suo nuovo matrimonio. Ciò comporta anche l’obbligo di restituire quanto percepito nel frattempo, nel modo che vedremo ora e che la Cassazione ha ritenuto applicabile anche in ulteriori casi, diversi da quello dell’ex coniuge risposato.

 

Rimborso assegno mantenimento o divorzile: in quali casi?

Una nuova ordinanza della Corte di Cassazione ha disposto che un’ex moglie deve restituire all’ex marito tutti gli importi percepiti a titolo di assegno divorzile, quando viene accertata l’inesistenza dei presupposti per il versamento sin dall’origine o in epoca successiva (in quel caso, l’assegno disposto molti anni fa era stato poi revocato, essendo venuto meno il criterio del tenore di vita, a causa dei mutamenti giurisprudenziali che fra poco ti esporremo). La buona fede di chi ha incassato quelle somme può valere, al più, soltanto per escludere il rimborso degli interessi  legali – altrimenti sempre dovuti, sin dal giorno del pagamento in base al principio generale sancito dal Codice civile – ma non può negare il diritto alla restituzione del capitale in favore di chi aveva versato indebitamente quel denaro.

Finora, la Suprema Corte aveva stabilito, in precedenti pronunce, che la restituzione dell’assegno di mantenimento potesse avere luogo solo nei casi di inesistenza originaria, o sopravvenuta, del titolo di pagamento, cioè della sentenza che aveva stabilito l’obbligo di pagamento del mantenimento. Questa nuova sentenza arricchisce e sviluppa le precedenti con importanti implicazioni, in quanto prende le mosse da un caso in cui la Cassazione si era già pronunciata nel 2017, disponendo la restituzione delle somme versate a titolo di mantenimento post divorzile. Sulla vicenda si era quindi formato un «giudicato interno» (una statuizione intangibile e vincolata, che preclude successive contestazioni sul punto) ma nel giudizio di rinvio la Corte d’Appello non aveva correttamente applicato i principi disposti e così l’ex coniuge obbligato è stato costretto a rivolgersi nuovamente alla Suprema Corte per ottenere la definitiva interruzione dell’obbligo di pagare l’assegno e la restituzione di quanto aveva versato in precedenza.

In particolare, nella prima ordinanza, gli Ermellini avevano stabilito che il riconoscimento dell’assegno di divorzio avviene in due distinte e susseguenti fasi, poste «in ordine progressivo»:

  • la prima concerne la spettanza del diritto all’assegno, fatto valere dal coniuge richiedente (fase dell’an debeatur);
  • la seconda riguarda l’entità dell’emolumento da corrispondere e investe «soltanto la determinazione dell’importo dell’assegno stesso» (fase del quantum debeatur).

Ora, se cade la prima parte è evidente che crolla anche la seconda, che poggiava su di essa. Il tutto, però, deve avvenire nel rispetto del principio della solidarietà economica dell’ex coniuge obbligato al versamento dell’assegno nei confronti dell’altro: a partire dalla fondamentale pronuncia delle Sezioni Unite nel 2018  è caduto il vecchio e automatico criterio del tenore di vita precedente goduto durante il matrimonio (che resta valido solo nella fase della separazione coniugale).

Quel metro di giudizio è ormai superato ed è stato sostituito da quello della funzione «assistenziale, perequativa e compensativa» dell’assegno di divorzio, che ora è da riconoscersi in base alla mancata autosufficienza economica dell’ex coniuge beneficiario e guardando alle condizioni che l’hanno determinata, come l’età avanzata, lo stato di cattiva salute e l’impossibilità di procurarsi un lavoro. Perciò, le statuizioni giudiziali pregresse possono essere riviste alla stregua dei nuovi criteri elaborati dalla giurisprudenza per il riconoscimento dell’assegno.

 

Restituzione assegno di mantenimento già percepito in buona fede

La conclusione di quanto abbiamo detto è scontata: ora, secondo la Cassazione, se la domanda di revoca viene accolta, il denaro incassato nel frattempo con l’assegno divorzile, ma ormai senza più averne titolo, dovrà essere restituito a chi lo ha versato. La nuova pronuncia afferma che «la sorte capitale sarà sempre e comunque da restituire per intero», in quanto nulla «giustifica la ritenzione di ciò che è stato indebitamente pagato» , a differenza degli interessi e degli altri frutti maturati sul capitale, che potranno restare incamerati. E secondo i giudici di piazza Cavour non rileva neppure la buona fede, o la malafede, «non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti». In altre parole – spiega il Collegio – «non rileva lo stato soggettivo di buona o mala fede» del percettore dell’assegno, bensì «l’assenza originaria di causa del pagamento, ossia del corrispondente arricchimento della controparte», che non è più giustificato.

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