Si può pretendere il contributo dell’ex quando si rinuncia al lavoro dopo la fine del matrimonio per accudire i figli?
Chi, dopo la fine del matrimonio, deve accudire dei figli può trovarsi nella difficile situazione di dover andare al lavoro lasciando i bambini incustoditi perché non ha nessuno a cui affidarli. Pagare una baby-sitter vorrebbe dire dover rinunciare ad una parte non indifferente dello stipendio per darlo alla ragazza. Apparentemente, non resta che chiedere l’assegno di divorzio, in modo da costringere l’ex a dare economicamente una mano. Ma chi sceglie di fare la casalinga dopo la separazione ha diritto all’assegno?
«Apparentemente», si diceva. E il termine non è scelto a caso, perché la Cassazione un’alternativa l’ha trovata in una recente ordinanza. Anzi, non «un’alternativa» ma «l’alternativa»: andare a lavorare. È l’unica cosa che può fare chi rinuncia alla carriera dopo la separazione per dedicarsi ai figli e alla casa, visto che si vedrà negare l’assegno divorzile.
Sarà così, sempre che sia nelle condizioni psicofisiche di farlo, cioè che non abbia qualche patologia che glielo impedisce e che si trovi in un’età in cui si è in grado di lavorare. È quello che la Cassazione definisce «principio di autoresponsabilità».
Ex moglie smette di lavorare: ha diritto al mantenimento?
Separazione e divorzio: se la donna si dimette o chiede una riduzione dell’orario di lavoro passando da full-time a part-time non ha diritto agli alimenti.
Se l’ex moglie smette di lavorare ha diritto al mantenimento? La questione si pone perché il divario economico tra coniugi è la prima condizione per il riconoscimento degli alimenti in favore di chi, dei due, non è in grado di mantenersi. Ma è anche vero – ha ribadito la Cassazione in questi anni – che tale divario non deve essere volontario, cioè il frutto di una scelta consapevole come per chi decide di non lavorare o di ridurre il proprio orario di lavoro dopo la separazione.
C’è una questione importante da chiarire in proposito: dopo il divorzio, entrambi i coniugi hanno il dovere di rendersi autonomi e di badare alle proprie esigenze. Solo un’oggettiva impossibilità, determinata dall’avanzare degli anni (che rendono meno probabile, oltre che più difficoltosa, un’occupazione) o da invalidanti condizioni di salute o, infine, dal fatto di non aver acquisito, nel corso degli anni di matrimonio, una formazione o una collocazione nel mondo del lavoro, possono giustificare lo stato di disoccupazione.