Investigatore Privato, Agenzia Investigativa IDFOX_Permessi 104: cosa rischia chi non assiste il disabile tutto il tempo?

Quali sono le conseguenze per l’uso indebito, ma solo in parte, dei permessi della legge 104? Quando è previsto il licenziamento?

Cosa succede se il lavoratore che ha ottenuto il permesso legge 104 per assistere un familiare disabile lo utilizza anche per altri scopi, ad esempio per andare in giro a sbrigare le sue faccende personali? In altre parole: cosa rischia chi non assiste il disabile per tutto il tempo?

A prima vista sembra evidente che c’è un uso indebito, scorretto e dunque illegittimo del permesso: la legge 104 lo riconosce per finalità precise e non certo per fare i fatti propri. Però questa fruizione non consentita delle ore o delle intere giornate di permesso è solo parziale e questo conta molto per rispondere alla nostra domanda.

 

l’assistenza continuativa

La casistica è praticamente sterminata. I meno giovani ricorderanno che, fino al 2000 circa, i permessi 104 si potevano ottenere solo per i familiari conviventi. Poi, la normativa è cambiata ed è stato introdotto il requisito dell’assistenza continuativa: quindi, si possono assistere anche parenti che risiedono altrove, come una madre anziana che continua ad abitare a casa sua. In tali casi, occorre anche considerare il tempo necessario al lavoratore per gli spostamenti: se il dipendente viene beccato dal suo datore di lavoro mentre sta raggiungendo l’abitazione della madre da assistere non potrà certo rimproverarlo e tantomeno licenziarlo.

La giurisprudenza più recente ha chiarito che assistenza continuativa non vuol dire esclusiva: quindi residua uno spazio di movimento. Occorre, però, sempre un nesso causale, anche se elastico, non con il cronometro in mano. Serve, cioè, un collegamento, anche indiretto, tra l’attività in concreto svolta dal lavoratore con le finalità per cui il permesso è previsto: vale a dire che non se ne può fare un uso distorto, ad esempio approfittare della giornata di “vacanza” per andare al mare, in palestra o a fare shopping.

Insomma, durante le ore o giornate di permesso non bisogna stare sempre con il familiare disabile, ma bisogna comunque impiegare quel tempo facendo qualcosa di necessario per lui. Nonostante questo criterio di fondo, rimangono numerose incertezze: nei permessi 104 cosa rischia chi non assiste un disabile per tutto il tempo disponibile, ma usa qualche ora, o qualche briciola di tempo, per dedicarsi ad altre incombenze? Vediamo.

 

Permessi 104: a chi spettano e quando

L’art. 33 della legge n. 104 del 1992 consente ad ogni lavoratore dipendente, pubblico o privato, di fruire di 3 giorni di permesso al mese, anche in orari frazionati, per assistere un familiare disabile. Questo periodo viene regolarmente retribuito ed è coperto da contribuzione previdenziale figurativa.

I familiari da assistere devono essere affetti da «handicap in situazione di gravità» e non devono essere ricoverati a tempo pieno in ospedale o in un’altra struttura. Può trattarsi del coniuge, dei genitori, dei figli o di altri parenti o affini entro il secondo grado, ed entro il terzo grado se ultrasessantacinquenni (per l’elencazione completa leggi a chi spettano i permessi legge 104). Se i genitori lavorano entrambi possono fruire alternativamente del permesso 104 per assistere il figlio disabile.

 

Permessi 104: come vanno usati?

Abbiamo visto che i permessi retribuiti fino a 3 giorni mensili spettano al lavoratore esclusivamente per assistere un familiare portatore di handicap grave. Il lavoratore non può utilizzarli per altri scopi e servirsene per motivi personali, altrimenti verrebbe meno la finalità prevista dalla legge.

Ciò non toglie che la finalità di assistenza possa essere interpretata in maniera estensiva: ad esempio, è sicuramente consentito compiere commissioni e altre incombenze per il familiare assistito (andare a fare la spesa, recarsi all’ufficio postale, ecc.). Anche il ministero del Lavoro riconosce che non è necessario fornire un’assistenza continua «in presenza» diretta, ma sono ammesse tutte le attività collaterali e ausiliarie.

 

Permessi 104 utilizzati per motivi personali: conseguenze

Quando il lavoratore che fruisce dei permessi 104 svolge attività personali, che non presentano un collegamento neppure indiretto con la cura e l’assistenza del disabile, commette un grave illecito e rischia il licenziamento per giusta causa, cioè senza preavviso e in tronco. La giurisprudenza ravvisa in questi casi una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro.

In particolare, le pronunce più recenti della Corte di Cassazione hanno riconosciuto legittimo il licenziamento comminato al dipendente che aveva abusato dei permessi 104 utilizzandoli per andare a lavorare nel negozio del coniuge o per recarsi in un centro commerciale e poi al mare.

Si può anche essere incriminati per il reato di truffa ai danni dell’Inps, in quanto è l’Ente che paga i giorni di permesso al lavoratore che ne abusa (il datore di lavoro si limita ad anticipare la retribuzione e poi la recupera in compensazione sui contributi da versare).

 

Uso parzialmente indebito dei permessi 104

Le rigide conseguenze che abbiamo esaminato sono mitigate quando l’uso improprio dei permessi 104 è soltanto parziale e non copre l’intera durata delle giornate concesse. La demarcazione tra l’uso corretto e l’abuso passa attraverso l’indagine sul nesso causale, cioè sulle finalità di assistenza del disabile: se le ore vengono utilizzate per scopi totalmente diversi, il licenziamento è inevitabile.

Quando, invece, l’uso scorretto dei permessi 104 è limitato e circoscritto ad un ristretto periodo di tempo, il licenziamento è eccessivo e sproporzionato, come ha affermato una nuova ordinanza della Corte di Cassazione. Nella vicenda esaminata il lavoratore aveva usato per finalità esclusivamente personali – e dunque incompatibili con l’assistenza al familiare disabile – meno di un quinto delle ore complessivamente concesse (solo 3 ore sul totale di 16, durante le quali aveva portato il suo cane dal veterinario). Così il rapporto di lavoro è stato dichiarato risolto, ma il datore è stato condannato a pagare al dipendente, che era stato solo parzialmente infedele, un’indennità risarcitoria pari a 18 mensilità.

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