Investigatore Privato, Agenzia Investigativa IDFOX_Lesione del diritto al nome e reato di diffamazione

Quando il cognome viene alterato apposta, per scherno e per offendere, il diritto di satira non opera e si ricade nella diffamazione.

Tutti siamo andati a scuola e sappiamo quanto è facile – e in certi casi anche divertente – storpiare il nome di un compagno. Ogni scherzo, però, è bello finché dura poco: quando si superano i limiti la presa in giro diventa dileggio e persecuzione. Questo fa soffrire e colpisce soprattutto chi ha un cognome facilmente accostabile a parolacce o a termini sconci, osceni e volgari: basta cambiare un paio di lettere per ottenere questi risultati offensivi. A parte il mondo della scuola, succede anche agli adulti di storpiare, volutamente, il nome o cognome di una persona. Qui non ci sono più le scusanti dell’età e del gioco: offendere storpiando il nome è reato, e si rischia di incorrere nella diffamazione, se l’espressione viene pronunciata in pubblico e con intento di scherno.

Ma allora il diritto di satira dove va a finire? Proprio di questo si è occupata una recente sentenza della Corte di Cassazione, a proposito di un individuo molto conosciuto nel suo piccolo paese: era il sindaco e il farmacista e durante una manifestazione pubblica è stato additato con l’appellativo di «brutto cesso»: quell’espressione somigliava pericolosamente al suo vero cognome.

Il reato di ingiuria

È chiaro che dire «brutto cesso» a una persona qualsiasi è un’offesa, ma se ciò avviene rivolgendosi direttamente a lui, in sua presenza, non c’è reato, perché l’ingiuria – prevista dall’art. 594 del Codice penale – è stata depenalizzata nel 2016 ed ora è punita solo con una sanzione pecuniaria in favore dello Stato (l’importo va da 100 a 8mila euro, che aumenta da 200 a 12mila euro se consiste in un fatto determinato o viene commessa in presenza di più persone).

Rimane fermo il diritto dell’offeso ad ottenere il risarcimento del danno, per una cifra variabile in base all’entità dell’offesa, al contesto e alla posizione sociale della vittima, perché il fatto non è più reato ma rimane pur sempre un illecito civile.

Il reato di diffamazione

Le cose cambiano se quelle parole – «brutto cesso» o insulti simili – si pronunciano in assenza dell’offeso ma in presenza di altre persone, almeno due: in questo caso, offendere storpiando il nome integra il reato di diffamazione, previsto e punito dall’art. 595 del Codice penale.

La diffamazione consiste nella lesione della reputazione di una persona e può compiersi in vari modi: parlandone male e denigrandola con epiteti offensivi, anche sui social network e nelle chat di gruppo, oppure insinuando il sospetto che abbia commesso reati o condotte disdicevoli, compreso il tradimento del coniuge.

La pena per la diffamazione “semplice” è la reclusione fino a un anno o la multa fino a 1.032 euro. Quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato – ad esempio un reato specifico come l’appropriazione indebita di denaro sul luogo di lavoro – la reclusione sale fino a 2 anni e la multa fino a 2.065 euro. La diffamazione è aggravata se viene compiuta attraverso la stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, comprese tutte le forme di pubblicazione su Internet: la reclusione va da 6 mesi a 3 anni e la multa non può essere inferiore a 516 euro.

Storpiatura del nome e diritto di satira

Il reato di diffamazione può essere scriminato dal diritto di satira, che rientra nel legittimo esercizio del diritto di critica: si pensi alla satira politica che colpisce continuamente personaggi noti con vignette, imitazioni e sketch sui social e in televisione. Ma il diritto di satira ha un confine invalicabile: non deve mai sfociare nelle offese personali e, in determinati casi, la storpiatura del nome o del cognome può esprimere dileggio e disprezzo – pensa a quando si deride l’aspetto fisico del soggetto, ad esempio perché di bassa statura o disabile – o comunque può costituire di per sé un insulto se la parola ottenuta con l’alterazione è offensiva.

Qui non si tratta più di fare dello spirito e la condotta è illecita: la causa di esclusione del reato di diffamazione non opera più. Nel caso del «brutto cesso» deciso dalla Cassazione, la Suprema Corte ha ritenuto che quell’appellativo costituisse un chiaro insulto personale ottenuto proprio dalla storpiatura del cognome della persona offesa. «Deve essere ben chiaro – affermano i giudici di piazza Cavour – il confine tra la legittima espressione satirica di ludibrio o ironico scherno e, di contro, il disprezzo personale gratuito».

Lesione del diritto al nome e reato di diffamazione

Così la satira non esclude la punibilità per diffamazione di quelle condotte che superano «il limite del rispetto dei valori fondamentali dell’individuo», tra i quali assume preminenza proprio il diritto al nome, che è sancito dall’art. 6 del Codice civile e comprende il prenome ed il cognome. In particolare – prosegue il Collegio – questo limite «deve ritenersi superato quando la persona pubblica (quale è, nel caso di specie, un sindaco, amministratore locale), oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al disprezzo personale».

Per questi motivi – spiega la sentenza – «l’imputato ha superato i limiti posti dall’interpretazione nomofilattica per ritenere sussistente la scriminante di cui all’art. 51 Cod. pen, anzitutto quanto alla forma espositiva della critica manifestata, poiché definire una persona, pur se con una finalità latamente satirica e benché ispirandosi ironicamente al suo cognome, non configura ‘l’espressione di un pensiero’ che, per quanto forte ed offensivo, faccia ‘riflettere sorridendo’ sul tema in relazione al quale si manifesta la propria idea ma si risolve nel gratuito insulto spregiativo e nel disprezzo personale».

La sentenza, che si pone in continuità con l’orientamento già consolidato della Suprema Corte, sottolinea che: «in tema di diffamazione (anche a mezzo stampa), sussiste l’esimente del diritto di critica quando le espressioni utilizzate, pur se veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira, consistano in un’argomentazione che esplicita le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti, mediante una forma espositiva strettamente funzionale alle finalità di disapprovazione e che non si risolve in un’aggressione gratuita alla sfera morale altrui o in disprezzo personale, sebbene possano utilizzarsi termini oggettivamente offensivi se insostituibili nella formazione del pensiero critico».

 

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