Obbligo di fedeltà del lavoratore: in cosa consiste
La fedeltà del lavoratore dipendente, assieme alla diligenza contemplata dall’art. 2104 c.c. sono i principali obblighi a cui è tenuto il lavoratore dipendente nei confronti del proprio datore. Il dovere di fedeli in particolare è disciplinato dall’articolo 2105 del codice civile. Detta norma dispone letteralmente chi: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.”
Dalla lettera della norma emerge che il dovere di fedeltà contempla al suo interno due obblighi negativi che devono essere rispettati da parte del prestatore di lavoro:
* il divieto di concorrenza;
* l’obbligo di riservatezza.
La Cassazione con la recente pronuncia n. 03543/2021 ha precisato che il dovere di fedeltà sancito dall’art. 2015 c.c. si traduce “nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, senza necessità che esse siano idonee ad integrare una concorrenza sleale, a termini degli arti. 2592, 2593 e 2598 c.c. (Cass. 5 aprile 1990, n. 2822; Cass. 30 gennaio 2017, n. 2239), riguardi la concorrenza che il prestatore possa svolgere non già, dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella che egli abbia svolto illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso (Cass. 19 luglio 2004, n. 13394; Cass. 29 agosto 2014, n. 18459).”
Limiti dell’obbligo di fedeltà
L’obbligo di fedeltà, ovviamente, non è assoluto. Come ribadito dalla recente Cassazione n. 17689/2022: “Si è infatti escluso che l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., così come interpretato da questa Corte in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all’interno dell’azienda, giacché in tal caso si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento (Cass. n. 4125 del 2017; n. 6501 del 2013). Ciò sul rilievo che lo Stato di diritto attribuisce valore civico e sociale all’iniziativa del privato che solleciti l’intervento dell’autorità giudiziaria di fronte alla violazione della legge penale, e, sebbene ritenga doverosa detta iniziativa solo nei casi in cui vengono in rilievo delitti di particolare gravità, guarda con favore alla collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell’interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti”
Una sentenza decisamene più risalente, la n. 13329/2001 sempre della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito invece che non è licenziabile il lavoratore part time con contratto di formazione che svolge anche attività lavorativa per conto di un’impresa concorrente. Per la Cassazione infatti la violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’at. 2105 c.c., sotto il profilo della trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l’imprenditore, si configura solo quando tale concorrenza si risolva in prestazioni non già meramente esecutive, bensì di carattere intellettuale di rilevante autonomia e discrezionalità. In altre parole, sono coloro che fanno parte del personale impiegatizio più altamente qualificato ad essere in grado di porre in essere quella concorrenza più intensa, comunemente definita differenziale, che il legislatore ha inteso reprimere.
Conseguenze della violazione
Il mancato rispetto dell’obbligo di fedeltà da parte del prestatore di lavoro comporta ai sensi dell’articolo 2106 del codice civile applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione.
Alle sanzioni disciplinari si accompagnano anche conseguenze di natura penalistica. L’articolo 623 del codice penale punisce chiunque, venuto a conoscenza per ragione del suo stato ufficio o professione o arte di segreti di natura commerciale o di notizie destinate a rimanere segrete in relazione a scoperti o invenzioni scientifiche, le rivela o le impiega per il proprio per l’altrui profitto è punito con la reclusione fino a due anni. La stessa pena è applicata anche a chi acquisisce in modo abusivo segreti commerciali e poi gli rivela o l’impiega per il proprio o per l’altrui profitto. La pena viene aumentata se il reato viene commesso tramite strumenti informatici. trattasi di reato punibile a querela della persona offesa.
Giusta causa di licenziamento
Il mancato rispetto dell’obbligo di riservatezza e del divieto di concorrenza integra senza dubbio una giusta causa di licenziamento, in quanto, come ha avuto modo di chiarire la Cassazione nella sentenza n. 14319/2017: “La fiducia è un fattore che, per l’oggetto della prestazione del rapporto di lavoro e per la protrazione di quest’ultimo nel tempo, condiziona, con la propria esistenza, l’affermazione del rapporto stesso e, con la propria cessazione, la negazione (cfr. Cass. 23.6.1998 n. 6216). 8. E’, pertanto, il fondamentale strumento di definizione di ciò che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto e può avere una intensità differenziata, rispetto alla funzione della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni, del grado di affidamento che queste esigono, nonché può essere modulata in funzione del fatto concreto (cfr. Cass. 2.2.1998 n. 1016), con riguardo alla sua portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze, ai motivi, alla natura e alla intensità dell’elemento psicologico. Assume, poi, determinante rilievo la potenzialità, che ha il fatto addebitato, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento (cfr. Cass. 27.11.1999 n. 13299).”
Obbligo di fedeltà dopo la fine del rapporto
L’obbligo di fedeltà può permanere anche dopo la fine del rapporto di lavoro. Le parti, ossia datore e lavoratore possono addivenire a un patto di non concorrenza ai sensi dell’art. 2125 c.c. che però è valido solo se rispetta i seguenti requisiti:
* deve risultare da un atto gente forma scritta;
* deve prevedere il riconoscimento di un corrispettivo in favore del prestatore di lavoro;
* il vincolo deve essere limitato alla durata di 5 anni se il dipendente è un dirigente, a tre anni negli altri casi e comunque se viene stabilita una durata maggiore di quelle appena indicate essa è ridotta automaticamente a dette durate.