Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Mobbing e stalking: quali rapporti?

Quale reato è configurabile quando le molestie, le vessazioni e gli atti persecutori avvengono sul luogo di lavoro?

La terminologia anglosassone è entrata di prepotenza anche nel tradizionale mondo giuridico. Così molti reati vengono ormai chiamati, anche nelle aule di giustizia, con i loro nomi all’americana, anziché secondo le denominazioni codicistiche. Si tratta in molti casi di nomi nuovi per fenomeni vecchi, ma purtroppo molto frequenti e allarmanti, come le prevaricazioni e vessazioni compiute sul posto di lavoro o le molestie persecutorie che avvengono in ambito extra lavorativo, nei luoghi ricreativi ed anche tra le mura domestiche.

A volte, però, questi fenomeni si incrociano, come nel caso del mobbing e dello stalking: quali rapporti ci sono tra queste due figure delittuose? Non è solo una questione di classificazione, anche se il diritto ha bisogno di ragionare “per categorie”. La nostra domanda ha una notevole implicazione pratica, perché, volendo ritenere i due reati distinti, essi possono concorrere tra loro, e allora il reo riceverà una pena complessiva più grave; viceversa, se la condotta criminosa è ricompresa in entrambe le fattispecie, si applicherà solo la pena per il reato prevalente e l’altro verrà assorbito (come avviene, ad esempio, nel reato di lesioni personali, che assorbe quello di percosse, o con l’estorsione, che comprende la violenza privata).

Inoltre, va considerato che questi casi di intreccio tra diversi reati sono molto frequenti, specialmente quando le condotte illecite vengono compiute in ambito lavorativo. I casi borderline e di difficile inquadramento giuridico sono parecchi. Ad esempio: un dirigente di una società che vessa continuamente i suoi dipendenti commette mobbing o stalking? Della questione dei rapporti tra le due fattispecie di reato si è occupata di recente la Corte di Cassazione, che ha dato la sua autorevole risposta: il caso rientra nel delitto di stalking aggravato dall’abuso di autorità. La sentenza che esamineremo è molto interessante perché analizza i confini, le reciproche interferenze e le possibili sovrapposizioni tra queste due fattispecie di reato.

Mobbing: cos’è?

Il mobbing consiste in una serie di comportamenti ostili compiuti nei confronti di un lavoratore da un suo superiore o dai colleghi. Nel primo caso, si ha il mobbing verticale (detto anche “bossing”); nel secondo caso, il mobbing è orizzontale, in quanto avviene tra lavoratori di pari o analogo livello, senza subordinazione gerarchica della vittima. C’è anche il caso – più raro – di mobbing ascendente, che avviene quando il bersaglio delle ostilità compiute dai dipendenti è il datore di lavoro o un manager.

Il mobbing ripetuto per un apprezzabile periodo di tempo – ad esempio per alcuni mesi – può provocare serie lesioni della salute del dipendente, anche a livello psicologico (disturbi adattativi, ansia, depressione, attacchi di panico, ecc.) e attaccare anche la sfera morale della sua dignità di persona. Gli effetti peggiori del mobbing consistono proprio nella degradazione, mortificazione ed emarginazione del lavoratore colpito.

Il mobbing non coincide con un’unica figura di reato, ma può integrare, a seconda dei modi illeciti in cui viene compiuto, varie figure delittuose, dalle minacce alle lesioni personali, dalla diffamazione all’estorsione. Per avere un’idea dell’ampio ventaglio di fattispecie configurabili puoi leggere l’articolo: “Mobbing: quale reato?“. Il mobbing può costituire reato anche quando gli atti isolatamente considerati sono leciti, ma vengono compiuti con intento persecutorio. In questi casi, conta il fine che unifica le diverse condotte.

Stalking: cos’è?

A differenza del mobbing, il reato di stalking è univoco: è definito dall’art. 612 bis del Codice penale come «atti persecutori», consistenti in minacce o molestie ripetute, che ingenerano nella vittima almeno una di queste tre conseguenze:

– un perdurante e grave stato di ansia o di paura;

– un fondato timore per la sua incolumità (o per quella di un prossimo congiunto o di una persona legata da una relazione affettiva);

– la costrizione a modificare le proprie abitudini di vita.

Lo stalking non riguarda soltanto le relazioni familiari e quelle affettive (anche se sono questi i casi più comuni) ma può verificarsi in qualsiasi ambiente in cui si instaurano rapporti tra l’agente e la vittima, come un condominio, la scuola o una palestra frequentata da entrambi. Perciò, è possibile che lo stalking avvenga anche sui luoghi di lavoro: aziende, uffici, negozi, studi professionali, laboratori artigiani. Si tratta del cosiddetto “stalking occupazionale“.

Anche in questi casi, come nel mobbing, l’autore delle molestie o minacce può essere il datore di lavoro, un superiore gerarchico, un collega o anche un sottoposto. Pure i modi di commissione del reato sono molteplici e spaziano dai messaggi insistenti alla presenza assillante e ossessiva; possono comprendere anche contestazioni disciplinari pretestuose, minacce di licenziamento senza un vero motivo, diffusione di voci denigratorie e infondate.

Quando il mobbing diventa stalking

Il mobbing può diventare stalking sul lavoro quando – come afferma la giurisprudenza – c’è una «mirata reiterazione di pluralità di atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro», in modo da causare un grave stato d’ansia o paura o la costrizione a modificare le abitudini di vita della persona offesa. In questa prospettiva, il «nucleo essenziale» dello stalking sul lavoro è costituito dallo «stato di prostrazione psicologica» della vittima degli atti persecutori.

La nuova sentenza della Cassazione intervenuta sul tema dei rapporti tra mobbing e stalking specifica ulteriormente questi concetti in relazione al caso di un dirigente di una società pubblica che aveva vessato continuamente alcuni suoi dipendenti, arrivando a minacciarli di cementarli in un pilastro. La Suprema Corte non ha dubbi nell’affermare che il mobbing, inteso come la reiterata attuazione di condotte volte ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinate a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, può integrare il delitto di atti persecutori».

Il Collegio sottolinea che «l’ambiente di lavoro non è una zona franca dello stalking», specialmente «quando il datore di lavoro compie un abuso di potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi». Nel caso esaminato dai giudici di piazza Cavour, l’imputato «aveva reiteratamente minacciato le persone offese di cementarle in un pilastro, li ha invitati a confrontarsi fisicamente con lui, li ha sottoposti a pubblici rimproveri inutilmente mortificanti e ad una serie di provvedimenti disciplinari culminati anche in un licenziamento al fine di creare terrore tra i dipendenti».

È stata respinta la difesa del dirigente, che aveva sostenuto di aver agito «allo scopo di rendere più efficiente la società»: la Corte ha affermato che «l’efficienza della società non poteva essere raggiunta attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti ed in genere mediante la commissione di delitti in danno della persona, dovendo la tutela della persona, e nel caso specifico del lavoratore, prevalere in ogni caso sugli interessi economici».

 

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