Inutile negarlo: uno degli esercizi più difficili da fare per qualsiasi cittadino è quello che consiste nel pagare le tasse. Si ha l’idea che lo Stato prenda una parte dei nostri soldi con qualsiasi scusa, e forse è così. Si versano tasse e imposte per lavorare, per avere una casa o un’auto (il carburante è una delle miniere d’oro per lo Stato), per comprare qualsiasi cosa (attraverso l’Iva), per guardare la televisione o per non guardarla, dato che il canone Rai si paga per il solo fatto di avere un apparecchio in casa. Perfino quando si ha un colpo di fortuna e si vince una lotteria il Fisco stappa la bottiglia insieme a chi ha fatto centro. «A tutto c’è un limite», pensa inutilmente il contribuente, visto che non spetta a lui porre alcuna soglia. Nel suo mondo perfetto, però, il cittadino sogna di togliere dall’elenco alcune voci particolarmente antipatiche. E da un recente sondaggio, vengono fuori le tre tasse che gli italiani non vogliono pagare. Non che le altre le versino volentieri, intendiamoci.
A ben guardare il risultato di uno studio fatto da Krls Network of Business Ethics per Contribuenti.it Associazione Contribuenti Italiani-Aps, condotto attraverso lo Sportello del Contribuente, per eliminare le tre tasse che occupano il podio delle più odiate dagli italiani ha il suo perché.
Uno può pensare che sia logico pagare per avere le vie della città illuminate, le strade asfaltate, l’assistenza sanitaria, la scuola per i nostri figli, una rete decente di trasporto pubblico, un’amministrazione efficiente. Ma è normale pagare le accise su benzina ed energia per mantenere quello che non esiste più? È forse logico pagare ad un Comune una tassa di soggiorno quando la Costituzione riconosce la libera circolazione all’interno del territorio nazionale? Se poi pensiamo al canone tv, l’assurdità potrebbe toccare i livelli più alti.
Ecco, allora, le tre tasse che gli italiani non vogliono pagare. E perché, a pensarci bene, questo giudizio non è del tutto sbagliato.
La tassa più odiata degli italiani: le accise
Non poteva non essere la prima delle tre tasse che gli italiani non vogliono pagare: le accise sui carburanti è qualcosa che ai contribuenti proprio non va giù. E non è difficile capire perché.
Stiamo parlando di un’imposta sulla fabbricazione e sulla vendita di prodotti di consumo. Questo significa «accisa». La più diffusa (e la più odiata) è quella sul prezzo dei carburanti, che si paga in quasi tutti i Paesi del mondo non produttori di petrolio. In Italia, è stata introdotta gradualmente da quasi un secolo per far fronte a certe emergenze dovute soprattutto a calamità naturali o ad eventi militari. Nel 1995, le 19 accise attualmente esistenti sui carburanti in Italia sono state raggruppate in un’unica imposta che finanzia il bilancio dello Stato e che, quindi, non ha più alcun legame con le motivazioni originali delle accise stesse.
Per capirci, ogni volta che facciamo anche un solo litro di benzina o di gasolio oppure quando viene introdotto del Gpl nella bombola dell’auto, il conducente paga teoricamente per continuare a finanziare:
– la guerra in Etiopia del 1935-1936;
– la crisi di Suez del 1956;
– la ricostruzione dopo il disastro del Vajont del 1963;
– la ricostruzione dopo l’alluvione di Firenze del 1966;
– la ricostruzione dopo il terremoto del Belice del 1968;
– la ricostruzione dopo il terremoto del Friuli del 1976;
– la ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980;
– la missione Onu durante la guerra del Libano del 1982;
– la missione Onu durante la guerra in Bosnia del 1995
– il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004;
– l’acquisto di autobus ecologici del 2005;
– l’emergenza terremoto in Abruzzo del 2009;
– il finanziamento alla cultura erogato nel 2011;
– la gestione degli immigrati dopo la crisi libica del 2011;
– l’emergenza alluvione in Liguria e
Toscana del novembre 2011;
– il decreto Salva Italia del dicembre 2011;
– l’emergenza terremoti in Emilia del 2012;
– il finanziamento del bonus gestori e la riduzione delle tasse ai terremotati dell’Abruzzo;
– le spese del decreto Fare del 2014.
Un elenco, insomma, che si commenta da solo e che colloca l’accisa sul primo gradino del podio delle tasse che gli italiani non vogliono pagare. Anche perché queste 19 voci pesano complessivamente quasi il 40% sul prezzo finale del pieno di benzina e del gasolio. Se poi ci mettiamo il 22% di Iva, significa che del costo di un litro di carburante, lo Stato si porta a casa più della metà.
La seconda tassa più odiata dagli italiani: il soggiorno
Dice l’articolo 16 della Costituzione italiana: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche».
Certo, bisognerebbe vedere che cosa si intende esattamente non tanto per «circolare» quanto per «soggiornare liberamente» quando un turista italiano va in una struttura alberghiera di una qualsiasi località del nostro Paese e deve pagare una tassa per, appunto, «soggiornarci liberamente».
Partendo da questa riflessione, la tassa di soggiorno è la seconda delle tre tasse che gli italiani non vogliono pagare. Si tratta di soldi che vanno dritti nelle casse dei Comuni: sono gli Enti locali a stabilire l’importo della tassa e ad incassarla tramite l’albergatore. Viene richiesta per ogni notte di permanenza presso hotel, bed and breakfast, villaggi turistici, ecc. e va da un minimo di 1 euro ad un massimo di 5 euro. Ogni Comune è libero di applicarla o meno.
Il principio che «giustifica» il pagamento della tassa di soggiorno è che il turista beneficia dei servizi messi a disposizione dal Comune che lo ospita. Il ragionamento che fa chi contesta questo pagamento è: ma quei servizi non sono già finanziati dalle tasse dei residenti? E i turisti, attraverso i consumi in alberghi, ristoranti, ingressi a musei, bar, gelaterie e quant’altro non portano già un beneficio alla comunità locale, pagando oltretutto, su qualsiasi spesa facciano, l’Iva che è già un’imposta? Ma soprattutto: dov’è finito il principio costituzionale secondo cui uno è libero di soggiornare dove vuole nel territorio italiano quando questo soggiorno viene tassato?
La terza tassa più odiata dagli italiani: il canone Rai
Qui si apre un mondo. Il canone Rai è una delle tasse più discusse da decenni e, a quanto risulta dal recente sondaggio commissionato dall’Associazione Contribuenti-Aps, è la terza delle tre tasse che gli italiani non vogliono pagare.
Di incongruenze, l’abbonamento televisivo ne presenta parecchie. A partire dal nome: il canone Rai non si paga solo per guardare la tv di Stato ma solo per il fatto di avere un apparecchio televisivo in casa (o in un esercizio pubblico), tranne in qualche eccezione, come abbiamo spiegato nell’articolo Come non pagare il Canone Rai.
In teoria, sarebbe sbagliato parlare anche di «abbonamento» che, di norma, è un contratto scelto e sottoscritto da un cliente con chi presta un servizio. Qui, il telespettatore si trova il canone imposto, senza firmare alcunché e facendo come unica scelta quella di comprarsi un televisore, per il quale paga già un’imposta, cioè l’Iva.
E ancora: da quando il canone tv è stato introdotto, il modo di guardare la televisione si è radicalmente trasformato. Tant’è che oggi è possibile vedere quasi tutte le trasmissioni da un computer, da un tablet o da uno smartphone. Ergo, si potrebbe non comprare il televisore e guardare la tv da un dispositivo diverso senza pagare il canone. In più, la stessa Rai mette a disposizione i programmi trasmessi sulla piattaforma Internet Rai Play, visibile gratuitamente.
Insomma, una tassa da decine di euro all’anno difficile da capire e ancor più complicata da digerire.
Le altre tasse che gli italiani non vogliono pagare
Non ci vuole molto per capire che versare dei soldi allo Stato non è qualcosa che si fa volentieri. Ma per completezza (e anche per soddisfare la curiosità del lettore, che sarà necessariamente un contribuente), ecco le altre tasse che gli italiani non vogliono pagare. Nell’ordine, dal quarto posto in poi:
– l’Iva, cioè l’imposta sul valore aggiunto che viene applicata su qualsiasi bene di consumo o servizio acquistato e che in Italia, nella sua versione ordinaria, è al 22% contro il 19% di Romania e Cipro, il 18% di Malta o il 17% del Lussemburgo;
– il bollo auto;
– i tributi comunali, cioè Imu, Tasi e Tares;
– il ticket sanitario;
– i contributi per i consorzi di bonifica;
– l’Irpef.