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È lecito registrare un video con telecamera nascosta addosso, in azienda, per raccogliere prove su comportamenti illeciti dei colleghi o del datore di lavoro, come il mobbing?
Un nostro lettore ci chiede: come posso registrare abusi sul lavoro legalmente? Si può ad esempio utilizzare una telecamera nascosto addosso per realizzare dei video da utilizzare come prova di comportamenti illeciti e per dimostrare, in un eventuale giudizio, il mobbing ai propri danni?
Sul punto si è già ampiamente pronunciata la giurisprudenza della Cassazione.
L’utilizzo, a fini difensivi, di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, sicché tali “intercettazioni” possono avvenire anche di nascosto. Lo scopo non può tuttavia essere diverso dall’uso giudiziario.
In altri termini, è possibile registrare o videoregistrare una conversazione tra presenti, all’insaputa di questi, anche se si tratta dei colleghi, dei superiori o dello stesso datore di lavoro, se ciò serve come prova in un giudizio (civile o penale) rivolto a far valere i propri diritti. È quanto succede, ad esempio, per ottenere il risarcimento da mobbing, per farsi pagare gli straordinari, per ottenere il riconoscimento formale di un rapporto di lavoro in nero e così via.
Ciò che non è ammessa è la diffusione dei dati personali – e quindi delle registrazioni – come mezzo di autodifesa e di vendetta. Si pensi a chi, dopo aver captato una conversazione, la diffonda su una chat WhatsApp, inoltrandola a terzi, oppure la pubblichi su un social. Tale condotta può portare al licenziamento per giusta causa(ossia in tronco).
Come chiarito dalla giurisprudenza (trib. Velletri, sent. n. 135/2023), la registrazione di una conversazione tra colleghi, se strettamente necessaria per la difesa di un diritto, può essere utilizzata in giudizio. Essa costituisce fonte di prova se colui contro il quale è prodotta non contesti che sia realmente avvenuta ed a patto che, almeno uno dei soggetti tra cui la conversazione è intercorsa, sia parte in causa. La contestazione non può essere generica ma deve suggerire al giudice le ragioni per cui ritenere detta captazione non genuina o falsata.
Con specifico riferimento ai rapporti di lavoro, la registrazione di conversazioni tra colleghi integra una grave violazione del diritto alla riservatezza che giustifica il licenziamento, a meno che, come appena detto, tale registrazione non sia propedeutica alla difesa in giudizio di un diritto e purché la sua utilizzazione avvenga solo per il periodo di tempo strettamente necessario alla difesa.
Come chiarito dalla Cassazione (sent. n. 28398/2022), l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e, pertanto, di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
Con «esigenza difensiva» che legittima la registrazione non deve intendersi la sola sede processuale, quanto piuttosto «tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso», come ad esempio davanti all’Ispettorato Territoriale del Lavoro o anche in sede di deposito di una querela dinanzi ai carabinieri o alla polizia.
Con l’effetto che la registrazione di una conversazione da parte di un lavoratore – all’insaputa degli altri partecipanti – non costituisce giusta causa di recesso né integrare inadempimento disciplinare, «ove rispondente al diritto di difesa e quindi essendo coperta dall’efficacia scriminante dell’art. 51 cod. pen., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico».
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