Causa vinta ma la controparte non paga: cosa fare?
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Inizia il processo, finisce la causa, la vinciamo ma rimaniamo a bocca asciutta perché controparte non paga. Che fare? Come avere quello che ci spetta?
Subiamo un torto e facciamo causa a chi ci ha danneggiati. E fin qui nulla di strano. Vinciamo la causa e il giudice condanna la controparte a pagare i danni. E anche qui ordinaria amministrazione. Passa il tempo ma nessun pagamento viene effettuato. A questo punto qualcosa non torna ma, purtroppo, è una eventualità da considerare, soprattutto se si tratta di denaro. Come può fare il creditore, con in mano una sentenza di condanna, per ottenere quanto gli spetta? Cosa fare se la causa è vinta ma la controparte non paga?
Indice
* L’appello sospende la condanna di primo grado?
* Causa vinta: che fare se controparte non paga?
* Causa vinta: quanto dura la condanna?
L’appello sospende la condanna di primo grado?
Se chi ha perso la causa impugna, facendo appello, la sentenza di primo grado, ciò non significa che la sua esecutività sia sospesa.
In altre parole, anche se è stata proposta una impugnazione, la condanna continua ad essere vincolante; quindi, il debitore deve pagare comunque.
L’unica eccezione a questa regola si verifica nel caso in cui il giudice di appello (il tribunale per i provvedimenti del giudice di pace o la corte d’appello per quelli del tribunale), alla prima udienza, sospenda l’esecutività della sentenza impugnata. Ma questo si verifica solo raramente.
Tutto ciò per dire che non è l’appello che deve far temere il creditore di non ottenere quanto gli spetta.
Dipende, invece, dalla solvibilità del debitore, cioè dalla sua capacità e possibilità di pagare.
In soldoni: se controparte non ha nulla di intestato – in pratica se percepisce solo il minimo vitale – meglio mettersi l’anima in pace: recuperare il dovuto sarà praticamente impossibile.
Causa vinta: che fare se controparte non paga?
Se la somma da recuperare è modesta, il creditore può procedere con il pignoramento dei beni mobili oppure quello dei crediti presso terzi: si tratta di procedure rapide e che non comportano un grande esborso di denaro ma che, contemporaneamente, non garantiscono certezza circa il loro esito.
E infatti:
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* il pignoramento di beni mobili può essere attivato solo se:
* il debitore possegga, presso la propria residenza, oggetti di valore;
* e se vi sia qualcuno disposto ad acquistarli ad un’asta pubblica;
* il pignoramento dei crediti presso terzi può essere attivato solo se:
* il debitore percepisca una pensione o comunque reddito di lavoro autonomo,
* oppure sia intestatario di un conto corrente e se il creditore sappia presso quale banca.
Se mancano questi presupposti, il pignoramento si tradurrà in un nulla di fatto: tempo e soldi sprecati.
Altro elemento da considerare: il pignoramento dei mobili implica che l’ufficiale giudiziario vada a casa del debitore al fine di cercare e pignorare i beni la cui vendita è più facile e immediata (per esempio, gli oggetti di valore), escludendo i beni non pignorabili come la fede, gli oggetti sacri e i beni necessari per condurre la normale vita quotidiana (letti, tavolo da pranzo, frigorifero, ecc…; si legga Il pignoramento dei beni mobili del debitore: cosa non può prendere l’ufficiale giudiziario).
Ora, in questo modo, se l’ufficiale giudiziario che non trova presso il debitore beni mobili da poter pignorare, gli chiede formalmente se abbia altri beni o redditi, verbalizzando la risposta.
Il creditore, quindi, ne verrà a conoscenza e potrà decidere di spostare il pignoramento verso altri beni di più sicura riscossione, magari incaricando un’agenzia investigativa per sapere dove il debitore ha un conto corrente in attivo o dove questi lavora. Chiaramente le spese aumentano. Si legga, per approfondimento Se il creditore non trova beni da pignorare.
Se invece la somma da recuperare è alta, il creditore può optare per il pignoramento di eventuali immobili del debitore, chiedendo al tribunale di venderli all’asta.
I tempi si allungano e anche i costi sono considerevoli ma le possibilità di ottenere risultati certi sono sicuramente maggiori.
Se la controparte debitrice è sposata in regime di comunione dei beni, in assenza di beni da pignorare intestati al debitore, si può aggredire il 50% del valore dei beni del marito o della moglie.
Se la controparte è una società, valgono le soluzioni di cui si è detto finora, oltre alla possibilità di chiedere che la società in questione venga dichiarata fallita.
Per crediti di lavoro dipendente, la via del fallimento (oggi, liquidazione giudiziale) potrebbe essere utile anche per ottenere l’intervento del fondo di garanzia dell’Inps (per quanto riguarda il tfr e le ultime tre mensilità). Mentre, in tutti gli altri casi, l’apertura di un fallimento potrebbe anche peggiorare il problema, dato che la procedura è lunga e complessa e se il debitore ha uno patrimonio scarso e molti debiti, le possibilità di ottenere un pagamento sfumano inesorabilmente.
Certo, potrebbe anche succedere che il semplice deposito dell’istanza di fallimento riesca a sbloccare la situazione, costringendo il debitore a pagare se non vuole andare incontro a conseguenza ancora peggiori. Ma se così non fosse, i tempi diventerebbero davvero biblici.
Causa vinta: quanto dura la condanna?
Alla luce di quando detto, viene spontaneo chiedersi: per quanto si può utilizzare le sentenze di condanna? Hanno una data di scadenza?
La risposta è sì: si prescrivono (scadono) in 10 anni, a meno che durante questo tempo intervengono atti interruttivi della prescrizione come lettere di diffida, solleciti di pagamento, ecc. Se così è, il termine inizia a decorrere da capo.
Quindi, la sentenza potrebbe valere anche contro gli eredi del debitore: si legga, in merito, La prescrizione della condanna in sentenza: per quanto tempo si può agire contro il debitore?
Fonte Intrnet