Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Separazione con addebito: bisogna versare il mantenimento?

Quali sono le conseguenze dell’addebito in caso di separazione o divorzio: gli alimenti e l’eredità. In caso di separazione con addebito, bisogna versare il mantenimento? La domanda è frutto di un equivoco che merita di essere chiarito. Ciò a beneficio di tutti coloro che, spesso più per questioni di principio, si imbarcano in lunghe e costose cause di separazione e divorzio, rivolte solo ad affermare la propria “estraneità” alla crisi matrimoniale ma senza alcun vantaggio pratico. Infatti, come si vedrà a breve, la cosiddetta «imputazione dell’addebito» non ha alcuna ricaduta su chi dovrebbe versare l’assegno di mantenimento. Le conseguenze infatti ricadono solo su chi il mantenimento lo richiede. Ma procediamo con ordine. Cos’è l’addebito? L’addebito è l’imputazione di responsabilità per la fine dell’unione coniugale. In buona sostanza, subisce l’addebito chi ha violato i doveri del matrimonio. Tali doveri sono la fedeltà, la convivenza, la reciproca assistenza materiale e morale, la contribuzione ai bisogni della famiglia, il rispetto per l’altrui dignità. In pratica, nel momento in cui il giudice emette la sentenza di separazione o di divorzio, dichiara anche – in presenza di specifica richiesta di una delle due parti – se la fine dell’unione matrimoniale è dipesa dalla colpa di un coniuge o dell’altro. Con l’addebito quindi il giudice attribuisce la responsabilità della separazione o del divorzio al marito o alla moglie, a tutti e due o a nessuno dei due, a seconda delle prove raccolte nel corso del giudizio. Cosa comporta l’addebito? L’addebito non comporta obblighi di risarcimento, né sanzioni di altro tipo. Chi tuttavia subisce l’addebito non può:   – chiedere il mantenimento all’ex;   – rivendicare diritti di successione nei confronti dell’ex. Rinviando la questione del mantenimento al successivo paragrafo occupiamoci per ora della seconda conseguenza: lo stato di erede legittimario. Come noto, un coniuge è erede dell’altro e non può mai essere diseredato. A questi quindi spetta una quota minima del patrimonio del defunto, la cosiddetta “legittima” (di qui appunto il termine “erede legittimario”). La qualità di erede non si perde per via della separazione ma solo col divorzio. Dunque, se un coniuge muore prima del divorzio, l’altro è ancora suo erede. Tale diritto però si perde se la separazione è avvenuta con addebito. Con l’addebito bisogna pagare il mantenimento?  Chi subisce l’addebito non deve, perciò solo, pagare il mantenimento all’ex. L’assegno di mantenimento (quello dovuto a seguito di separazione) e l’assegno divorzile (quello dovuto a seguito di divorzio) scattano solo in presenza di una incolpevole disparità di reddito tra i due coniugi e non anche per l’eventuale violazione dei doveri del matrimonio. Sicché, chi è più “ricco” dell’altro dovrà versare a quest’ultimo il mantenimento anche se non subisce l’addebito. L’addebito non incide quindi sulla posizione di chi deve versare il mantenimento ma solo su quella di chi lo deve ricevere (non potendo più pretenderlo). Ecco perché spesso la battaglia dell’addebito non ha alcun rilievo pratico, come nel caso della moglie disoccupata che chiede l’addebito al marito titolare di reddito da lavoro dipendente. Quest’ultimo infatti dovrà versarle gli alimenti con o senza addebito. Quando non è previsto l’assegno di mantenimento? Oltre al caso del coniuge che subisce l’addebito, il mantenimento non è dovuto quando non vi è disparità sostanziale tra i redditi dei due coniugi. Inoltre, non è dovuto se il richiedente ha ancora una potenzialità lavorativa: è in grado cioè di produrre reddito come succede per chi è giovane, formato, con esperienze. Non è poi dovuto quando il richiedente non dimostra che la sua incapacità economica – ossia di poter badare alle proprie esigenze di sopravvivenza – non dipende da propria colpa. Il mantenimento è invece dovuto a chi è malato, disabile, di età avanzata, vive in contesti geografici di forte disoccupazione, ha tentato – senza successo – di farsi assumere. Con l’addebito bisogna pagare il risarcimento?  L’addebito, abbiamo visto, implica solo la perdita dei diritti successori e del mantenimento. Non comporta l’obbligo di mantenere l’ex, obbligo che deriva invece da un diverso presupposto: quello della disparità economica. Ci si potrebbe chiedere se con l’addebito bisogna però risarcire l’ex. Ad esempio, il coniuge traditore deve pagare i danni all’altro? Ciò può succedere solo quando la violazione dei doveri del matrimonio incide sui diritti costituzionali del coniuge come l’integrità fisica, l’onore e la reputazione. Quindi, ad esempio, il risarcimento sarà dovuto da parte del coniuge responsabile di maltrattamenti, violenze o che ha tradito in modo plateale, noto cioè alla collettività (con ciò ledendo la dignità dell’altro).

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona

La Corte di Appello di Bologna confermava una sentenza del Tribunale di Modena che, emessa all’esito di giudizio dibattimentale, condannava l’imputato alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’art. 642, secondo comma, cod. pen.. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione Avverso il provvedimento adottato dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che deduceva i seguenti motivi: 1) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., mancanza della motivazione della sentenza impugnata; 2) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., erronea applicazione dell’art. 642 cod. pen.. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione Il ricorso era ritenuto inammissibile per le seguenti ragioni. Si osservava a tal proposito innanzitutto, in ordine alla prima doglianza, che non integrava, di per sé, vizio della motivazione il fatto che la Corte d’appello di Bologna avesse richiamato le motivazioni della sentenza di primo grado del Tribunale di Modena atteso che la struttura argomentativa della sentenza di appello si può saldare con quella di primo grado, ricorrendo, in tal caso, la cosiddetta “doppia conforme” con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (tra le tante: Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011). Tal che se ne faceva discendere che tale motivo si appalesasse, pertanto, manifestamente infondato. Ciò posto, a proposito della seconda doglianza, si osservava prima di tutto che l’art. 642 cod. pen., strutturato come una norma penale mista del tutto peculiare, prevede, nei suoi commi primo e secondo, cinque diverse fattispecie di reato — in particolare, il danneggiamento dei beni assicurati e la falsificazione o alterazione della polizza, nel comma primo; la mutilazione fraudolenta della propria persona, la denuncia di un sinistro non avvenuto e la falsificazione o alterazione della documentazione relativa al sinistro, nel comma secondo — che,  ove ricorrano gli estremi fattuali, possono concorrere fra loro (Sez. 2, n. 1856 del 17/12/2013), rilevandosi al contempo che il legislatore, con la fattispecie in considerazione, ha inteso prevedere una tutela speciale e in qualche modo “rafforzata” a protezione del mercato delle assicurazioni, predisponendo la tutela anticipata nel caso in cui l’azione fraudolenta tipica del reato di truffa si innesti su un rapporto assicurativo; in altri termini, l’art. 642 cod. pen. costituisce, cioè, un’ipotesi criminosa speciale rispetto al reato di truffa di cui all’art. 640 cod. pen. considerato che, nel primo, sono presenti tutti gli elementi della condotta caratterizzanti il secondo e, in più, come elemento specializzante, il fine di tutela del patrimonio dell’assicuratore (Sez. 6, n. 2506 del 13/11/2003; Sez. 1, n. 4352 del 10/04/1997). Oltre a ciò, era altresì notato che, da un lato, le fattispecie previste dall’art. 642 cod. pen. si presentano “speciali” rispetto all’archetipo della truffa perché predispongono una tutela anticipata e rafforzata del patrimonio delle società che gestiscono le assicurazioni, dall’altro, nel caso, come quello in oggetto, di denuncia di un sinistro stradale in realtà mai accaduto, tale fattispecie, come più volte affermato in sede di legittimità, non costituisce un reato “proprio“, attribuibile esclusivamente al contraente della polizza, essendo, invece, ravvisabile in capo a qualsiasi soggetto, anche estraneo al sinallagma, il quale, manipolando illecitamente il rapporto contrattuale, denunci, o concorra nel denunciare, il sinistro non accaduto (Sez. 2, n. 43534 del 19/11/2021; Sez. 2, n. 4389 del 11/10/2018). Da ciò se ne faceva discende che in modo (ritenuto) corretto e logico i giudici di merito avevano ritenuto che l’imputato, presentando, per il tramite di altra persona da lui incaricato, richiesta di risarcimento del danno cagionatogli dal non accaduto sinistro, con allegata la relativa constatazione amichevole, avesse concorso nella denuncia del falso sinistro, materialmente da questi presentata e finalizzata, comunque, a fare ottenere il risarcimento del danno all’autore materiale. Da qui, come già rilevato anche prima, se ne faceva discendere l’inammissibilità del ricorso e la contestuale condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al pagamento, in favore della cassa delle ammende, della somma di euro tremila. Conclusioni La decisione in oggetto desta un certo interesse in quanto sono ivi chiariti taluni aspetti del reato preveduto dall’art. 642 cod. pen.. Difatti, fermo restando che tale disposizione legislativa incrimina, come è noto, il fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e la mutilazione fraudolenta della propria persona, in tale decisione, si afferma, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che l’art. 642 cod. pen., strutturato come una norma penale mista del tutto peculiare, prevede, nei suoi commi primo e secondo, cinque diverse fattispecie di reato; in particolare, al primo comma è contemplato il danneggiamento dei beni assicurati e la falsificazione o alterazione della polizza mentre, nel comma secondo, è prevista la mutilazione fraudolenta della propria persona, la denuncia di un sinistro non avvenuto e la falsificazione o alterazione della documentazione relativa al sinistro, nel comma secondo che,  ove ricorrano gli estremi fattuali, possono concorrere fra loro, rilevandosi al contempo, da un lato, che le fattispecie previste dall’art. 642 cod. pen. si presentano “speciali” rispetto all’archetipo della truffa perché predispongono una tutela anticipata e rafforzata del patrimonio delle società che gestiscono le assicurazioni, dall’altro, che, nel caso di denuncia di un sinistro stradale in realtà mai accaduto, tale fattispecie, come più volte affermato in sede di legittimità, non costituisce un reato “proprio“, attribuibile esclusivamente al contraente della polizza essendo, invece, ravvisabile in capo a qualsiasi soggetto, anche estraneo al sinallagma, il quale, manipolando illecitamente il rapporto contrattuale, denunci, o concorra nel denunciare, il sinistro non accaduto. Tale provvedimento, quindi, con particolar riguardo al caso di c.d. frode assicurativa, deve essere preso nella dovuta considerazione al fine di individuare chi sono gli autori di questa fattispecie criminosa, e, rispetto a quali condotte costoro possano rispondere in ordine a siffatto illecito penale.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Che cos’è l’eredità giacente

Si ha eredità giacente (artt. 528 e ss. c.c.) nel periodo di tempo che intercorre tra l’apertura della successione e l’accettazione dell’eredità. Il fine è assicurare una tutela al patrimonio ereditario di cui si occuperà un curatore appositamente nominato   Cosa si intende per eredità giacente La giacenza è una condizione che si verifica nelle situazioni di incertezza sulla destinazione del patrimonio ereditario: essa ha luogo quando si è aperta la successione e il chiamato all’eredità non ha ancora accettato e, analogamente, quando non si ha notizia di eventuali eredi in vita del de cuius. Il legislatore per assicurare una tutela del patrimonio ereditario in questa fase ha previsto che si nomini, d’ufficio o su istanza di parte, un curatore che amministri l’eredità giacente. L’art. 528 primo comma c.c. dispone, infatti, che: “Quando il chiamato non ha accettato l’eredità e non è nel possesso di beni ereditari, il tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, su istanza delle persone interessate o anche d’ufficio, nomina un curatore dell’eredità “. La normativa di riferimento L’eredità giacente è disciplinata sia dal codice civile che dal codice di procedura civile. Gli articoli di riferimento sono i seguenti: – 528 c.c. sulla nomina del curatore; art. 529-art- 531 c.c. sugli obblighi e i compiti del curatore; art. 532 c.c. sulla cessazione della curatela per accettazione dell’eredità; – 781-783 c.p.c., rispettivamente, sulla notificazione del decreto di nomina del curatore, sulla vigilanza del giudice, sulla vendita dei beni ereditari; art. 193 disp. att. c.p.c. sul giuramento del curatore dell’eredità giacente. Eredità giacente ed eredità vacante: differenza L’elemento caratterizzante la giacenza, che è appunto la situazione di incertezza, è alla base della distinzione tra l’eredità giacente e l’eredità vacante. Quest’ultima, infatti, è un istituto caratterizzato dalla certezza (e non incertezza) della mancanza di chiamati all’eredità (e tale consapevolezza comporta la devoluzione di quest’ultima a beneficio dello Stato). I presupposti dell’eredità giacente I presupposti che fondano la giacenza, stabiliti dall’articolo 528 del codice civile, sono: – la mancata accettazione dell’eredità da parte del chiamato, – il mancato possesso dei beni ereditari da parte del chiamato, – la nomina del curatore dell’eredità giacente. Con riferimento al primo presupposto, parte della dottrina, aderendo al dato letterale, ritiene che la giacenza possa verificarsi solamente quando vi sia un unico chiamato alla successione; altra dottrina, preferibile, ritiene invece che essa sussista anche nel caso in cui vi siano più chiamati. Il problema sorge nel caso in cui vi siano più chiamati e, di questi, non tutti abbiano accettato: in tal caso, per la quota non accettata, può essere nominato un curatore della quota ereditaria giacente? Sul punto vanno segnalate due sentenze della Corte di cassazione che si sono pronunciate sula questione, ma in maniera differente tra loro: la numero 2611 del 22 febbraio 2001, che dà risposta negativa, e la numero 5113 del 19 aprile 2000, che dà invece risposta positiva. Il curatore dell’eredità giacente La nomina del curatore è l’atto che costituisce la giacenza in quanto, con essa, il chiamato all’eredità perde i poteri dei quali godeva ai sensi dell’articolo 460 del codice civile (rubricato “Poteri del chiamato prima dell’accettazione”). Del resto, l’istanza per la nomina del curatore viene effettuata proprio a causa dell’inerzia del chiamato il quale, non volendo accettare e non volendo essere autorizzato a compiere gli atti necessari, lascia in stato di abbandono il patrimonio ereditario. Chi può chiedere la nomina del curatore dell’eredità giacente L’istanza per la dichiarazione di giacenza dell’eredità e la nomina del curatore può essere proposta da chiunque vi abbia interesse. L’assistenza del difensore è facoltativa. Per richiedere l’apertura della procedura di eredità giacente occorre fare ricorso al giudice della successione (con relativa nota di iscrizione) cui allegare una serie di documenti (certificato di morte, certificato storico anagrafico del defunto e della sua famiglia di origine attestanti l’inesistenza di chiamati all’eredità entro il 6° grado, marca da bollo da euro 27,00, contributo unificato di euro 98,00). Cosa fa il curatore dell’eredità giacente Il curatore dell’eredità giacente è titolare di un ufficio di diritto privato, che si perfeziona a seguito del giuramento. Tra i suoi obblighi rientra, primo tra tutti, quello di redigere l’inventario del patrimonio ereditario e di compiere gli atti urgenti. Tale soggetto ha la legittimazione processuale in nome e per conto dell’eredità, amministra il patrimonio ereditario per tutta la durata della giacenza e, previa autorizzazione del Tribunale, ha facoltà di liquidare le passività, compiere attività d’impresa e vendere beni immobili (nel caso di necessità o utilità evidente). Cessazione della curatela La curatela cessa non per abbandono dell’ufficio da parte del curatore (nel qual caso si provvederà alla nomina di altro curatore) ma nei casi di: – accettazione dell’eredità da parte del chiamato, – esaurimento dell’attivo ereditario – accertamento della mancanza di chiamati all’eredità. In tale ultima ipotesi viene dichiarata la vacanza ereditaria e l’unico successore è lo Stato.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Esecutore testamentario

L’art. 700 c.c. prevede la facoltà per il testatore di nominare un esecutore testamentario, cioè una persona di fiducia che deve controllare la corretta attuazione delle sue ultime volontà   Chi è l’esecutore testamentario L’esecutore testamentario (ex art. 700 c.c.) è il soggetto che ha la funzione di dare esecuzione o curare che sia eseguita dall’onerato, la volontà testamentaria. L’esecutore testamentario, ai sensi del successivo art. 701 c.c., può essere anche un erede o un legatario, ciò che conta è che l’esecutore abbia la “piena capacità di obbligarsi” e quindi la piena capacità di agire. Come viene fatta la nomina Il testatore, ai sensi degli artt. 700 e ss. c.c. ha facoltà di nominare un esecutore testamentario per il caso in cui tutti o alcuni chiamati non vogliano o non possano accettare. La nomina può essere contenuta in un testamento o in un atto avente la forma testamentaria: si ritiene possibile anche la nomina di un esecutore come mandatario post mortem. Chi può essere nominato esecutore testamentario Possono essere nominate, quali esecutori testamentari, solamente i soggetti che hanno piena capacità di obbligarsi e, tra di essi, non sono esclusi i chiamati alla successione: possono quindi essere nominati esecutori gli eredi o i legatari. L’esecutore nominato dovrà accettare la carica, con una dichiarazione resa alla cancelleria del Tribunale nella cui giurisdizione si è aperta la successione, e l’accettazione viene annotata nel registro delle successioni. Requisiti formali art. 702 c.c. L’accettazione della nomina o la rinunzia di esecutore testamentario deve avvenire in forma scritta e deve essere resa, a pena di nullità, presso la cancelleria del tribunale del luogo in cui si è aperta la successione, nonché registrata presso il registro delle successioni. L’accettazione inoltre non potrà essere subordinata a termine o condizioni. La forma richiesta dall’art. 702 c.c. è ad substantiam e non è quindi ammissibile l’accettazione tacita. L’ultimo comma di tale articolo prevede poi la possibilità, su istanza di qualsiasi interessato, che l’autorità giudiziaria possa assegnare un termine per l’accettazione da parte dell’esecutore decorso il quale lo stesso si si considererà rinunciante. Si tratta in sostanza di un’actio interrogatoria che segue il medesimo procedimento dell’art. 749 c.p.c. Lo spirare di tale termine determina quindi la decadenza del designato dal potere di accettare la nomina. Cosa fa l’esecutore testamentario In virtù di quanto disposto dall’art. 703 c.c., l’esecutore testamentario deve occuparsi della gestione e della cura dei beni ereditari affinché le disposizioni di ultima volontà del testatore siano correttamente eseguite. L’esecutore può porre in essere tutti gli atti di gestione che si rivelino necessari provvedendo ad un’amministrazione dei beni secondo le regole di diligenza del buon padre di famiglia. A tal fine, di regola e salva contraria volontà del de cuius, l’esecutore prenderà possesso degli stessi. Il terzo comma del medesimo articolo prevede che il possesso dei beni ereditari possa durare un anno a partire dall’accettazione dell’eredità, ferma restando la possibilità per l’autorità giudiziaria in caso di evidente necessità, e previo contraddittorio con gli eredi, di prolungarne la durata per un anno ulteriore. Nel caso in cui sia necessario alienare i beni ereditari l’esecutore è tenuto a richiedere l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, che procederà anche in questo caso sentiti preventivamente gli eredi. L’autorizzazione è altresì necessaria per tutti gli atti di straordinaria amministrazione che non siano già stati previsti come necessari dal testatore. Da ultimo si ritiene che l’amministrazione dell’eredità avviene a nome dell’esecutore, ma gli effetti degli atti ricadono direttamente nella sfera patrimoniale dell’erede. Il rendiconto della gestione L’esecutore testamentario, al termine del primo anno dall’apertura della successione, deve rendere il conto della propria gestione. L’obbligo del rendiconto sussiste solamente quando l’esecutore abbia avuto l’amministrazione dei beni ereditari e, nonostante sia un ufficio gratuito, egli risponde della propria gestione per colpa. Ogni interessato può domandare l’esonero dell’esecutore testamentario nel caso di gravi irregolarità nell’espletamento della sua funzione o in caso di comportamenti che abbiano minato la sua fiducia. L’esecutore testamentario rappresenta processualmente l’eredità: le azioni dovranno quindi essere proposte tanto nei confronti dell’erede, che nei confronti dell’esecutore. Nonostante sia un ufficio gratuito, il testatore può prevedere, a favore dell’esecutore, una retribuzione a carico dell’eredità. Ulteriori facoltà dell’esecutore testamentario In ogni caso l’attività dell’esecutore non si limita alla presa di possesso dei beni e alla loro amministrazione; l’art. 705 c.c. prevede infatti la possibilità per l’esecutore di richiedere l’apposizione di sigilli laddove tra i chiamati all’eredità vi siano dei minori, degli assenti o degli interdetti, o laddove tra i chiamati vi siano delle persone giuridiche. In questi casi è compito dell’esecutore far redigere l’inventario dei beni dell’eredità. A norma dell’art. 704 c.c. poi durante la gestione dell’esecuzione del testamento le azioni relative all’eredità devono essere proposte anche nei confronti dell’esecutore. Lo stesso ha poi la facoltà di intervenire nei giudizi promossi dall’erede e può esercitare le azioni inerenti all’esercizio del suo ufficio. Si tratta di due ipotesi differenti: nelle azioni relative all’eredità la legittimazione passiva spetta all’erede e l’esecutore testamentario è litisconsorte necessario ex art. 102 c.p.c., viceversa nelle azioni inerenti all’ufficio l’esecutore gode di autonoma legittimazione. Tra le azioni inerenti all’ufficio si annoverano le azioni dirette ad accertare i diritti successori e le azioni volte ad individuare i soggetti cui l’esecutore deve consegnare i beni dell’eredità, nonché le azioni concernenti la validità o meno del testamento. Divisione e consegna dei beni dell’eredità Ove l’esecutore non sia un erede o un legatario il testatore può prevedere che lo stesso, previa audizione degli eredi, proceda alla divisione tra gli eredi dei beni dell’eredità in osservanza di quanto disposto dall’art. 733 c.c. In ogni caso, a norma dell’art. 707 c.c., l’esecutore testamentario deve provvedere a consegnare all’erede che lo richieda i beni che non siano necessari all’esercizio del suo ufficio. In base a tale disposizione quindi l’esecutore è tenuto alla consegna dei beni ove l’erede ne faccia richiesta, laddove sussistano sufficienti garanzie per l’adempimento dei compiti che l’esecutore deve svolgere. Viene precisato, inoltre, che l’esecutore non possa rifiutarsi di consegnare i beni a causa di obbligazioni che lo stesso debba adempiere in conformità a quanto disposto dal testatore o di legati sottoposti a termine o condizione, nel caso in cui l’erede abbia dimostrato di averli già soddisfatti o abbia offerto idonea garanzia in tal senso. Responsabilità dell’esecutore testamentario per gravi irregolarità L’art. 710 c.c. prevede che su istanza di ogni interessato, l’autorità

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Perde la responsabilità genitoriale la mamma che allontana il figlio dal padre

Il giudice nel valutare la capacità genitoriale tiene conto anche dell’impegno profuso da entrambi di voler garantire al minore la presenza anche dell’altra figura, se questo non accade si lede il diritto alla bigenitorialità Responsabilità genitoriale Confermata la decisione della Corte di Appello che a sua volta h confermato la decisione del Tribunale dei minorenni relativa alla revoca della responsabilità genitoriale di una madre. La donna, ansiosa e controllante, ha creato attorno al bambino un clima di negatività e sfiducia verso il mondo e il padre provocando al minore un trauma grave. Durane i primi gradi del giudizio la donna ha mostrato una condotta improntata a scarsa collaborazione e anche della vicenda giudiziaria ha una visione paranoica e negativa. L’interesse primario del minore è quella di avere una crescita sana ed equilibrata e di conservare il diritto all bigenitorialità, che tuttavia, come nel caso di specie, può richiedere interventi mirati come incontri protetti con la madre e un percorso terapeutico che si presenta senza dubbio lungo e difficile. Queste le conclusioni della Cassazione contenute nell’ordinanza n. 19305/2022. La vicenda processuale Una madre viene privata della responsabilità genitoriale con decreto del Tribunale dei minori di Lecce. Decisione che la donna impugna, ma che viene rigettata dalla Corte di Appello. In primo grado viene disposto infatti che il bambino venga dimesso dalla comunità in cui era stato collocato con il padre, che sia affidato a quest’ultimo e posto sotto il controllo dei servizi sociali. Viene inoltre disposto un programma psicologico distinto per padre, madre e figlio e incontri in uno spazio neutro tra madre e figlio. Condizioni da rimodulare al compimento dei 10 anni del bambino. La Corte ha confermato quanto appurato in sede di primo grado, ossia il forte condizionamento psicologico esercitato dalla madre sul figlio, come confermato anche dalle relazioni del responsabile della comunità e dei consulenti. La personalità della madre è risultata infatti ansiosa e controllante, buono invece il rapporto del minore con il padre. La donna inoltre, come evidenziato dalla Corte, non progredisce nel rapporto con il figlio di cui non riesce a riconoscere i bisogni. Essa presenta un disturbo paranoide ed è rigida nelle proprie percezioni persecutorie, frutto solo del suo pensiero, che trasmette negativamente al figlio. La decisione di privare la madre della responsabilità genitoriale è dettata dalla necessità di tutelare il bambino e garantirgli un percorso di crescita sano ed equilibrato. Decisione ovviamente momentanea poiché obiettivo del progetto che il Tribunale ha chiesto ai servizi sociali è quello di garantire al minore il diritto alla bigenitorialità, che comporta il necessario recupero del rapporto con la madre. Omessa la valutazione sulla fondatezza scientifica della PAS La madre ovviamente ricorre in Cassazione, sollevando ben 5 motivi di doglianza:   – Con il primo contesta la valutazione acritica della Corte di Appello della consulenza tecnica, che ha concluso per la diagnosi di alienazione parentale omettendo ogni verifica di fondamento scientifico della stessa. Di contro è stato dato per buono l’esito assolutorio del giudizio per maltrattamenti familiari a carico del padre del minore.   – Con il secondo lamenta la violazione dell’onere della prova per avere la corte riconosciuto valore probatorio all’elaborato peritale, finendo in tal modo per alleggerire l’onere posto a carico del padre del minore.   – Con il terzo rileva l’omesso esame di un fatto decisivo come le ragioni del rifiuto del minore nei confronti del padre.   – Con il quarto, sempre l’omesso esame di un fatto decisivo come l’esame del provvedimento del tribunale ordinario da cui emerge la condotta per nulla ostruzionistica nei confronti del padre del bambino.   – Con il quinto infine rileva il mancato rispetto di diverse regole procedurali come le mancate riprese audio e video in sede di ascolto del minore da parte del giudice. Una visione paranoica e negativa traumatizza gravemente il figlio La Cassazione dichiara il ricorso ammissibile, ma lo rigetta per diverse ragioni. Infondato il primo motivo del ricorso poiché il giudice, quando un genitore denuncia condotte di allontanamento da parte dell’altro genitore dal figlio minore, indicativi della PAS, è tenuto ad accertare prima di tutto la veridicità di tali comportamenti ricorrendo alle prove comuni, a prescindere dal giudizio di validità o meno di detta teoria. A rilevare è il giudizio sull’idoneità genitoriale e la capacità dei genitori di garantire al figlio la continuità nel rapporto con l’altro. La Corte di appello inoltre ha ritenuto che le consulenze appaiono lineari e non contraddittorie. I consulenti hanno escluso un disturbo della personalità, esse hanno però sostenuto che la donna ha una visione paranoide della realtà e della vicenda giudiziaria, dimostrando di non distinguere tra quella che è la propria percezione della realtà e i fatti. Inammissibile il secondo motivo relativo alla mancata acquisizione dei video e degli audio degli incontri protetti madre figlio perché la Corte di appello ha già affermato che la donna non ha dedotto fatti specifici in grado di metter in dubbio la genuinità delle relazioni degli addetti alla comunità. Infondato il terzo motivo perché la Corte ha spiegato che la disfunzionalità del rapporto madre figlio era rilevabile nella incapacità della donna di dare al piccolo le necessarie sicurezze per la sua crescita. La stessa trasmetteva al minore una visione negativa del padre e sospettosa del mondo, condizionando così il piccolo, che non poteva avviarsi verso l’autonomia. Il minore nei primi anni, ha quindi avuto una percezione della realtà “altamente spaventante e traumatica”, per cui l’equilibrio che lo stesso deve raggiungere richiede tempo e interventi specifici. Vero che occorre riconoscere al minore il diritto alla bigenitorialità, ma proprio perché l’interesse a una crescita sana ed equilibrata è prioritario è necessario adottare le misure necessarie per tutelarlo. Nel caso di specie le decisioni prese sono state corrette e ragionevoli tanto che il bambino ha continuato a vedere la madre, seppure nel corso di incontri protetti. Inammissibile il quarto motivo per assenza di specificità, così come è inammissibile il quinto per la novità della questione dedotta.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Licenziato il dipendente che lavora durante l’aspettativa

Per la Cassazione, la violazione del divieto di svolgere qualsiasi attività lavorativa giustifica il provvedimento Licenziamento per giustificato motivo soggettivo Legittimo il licenziamento del lavoratore che durante l’aspettativa per motivi familiari svolge attività lavorativa. Così ha deciso la Cassazione (ordinanza n. 19321/2022). Il caso Il lavoratore in aspettativa per gravi motivi familiari ha lavorato presso l’attività del coniuge, e per tale ragione è stato licenziato. Questi si è ovviamente opposto al provvedimento del datore, sostenendo che l’aspettativa concessa non aveva comportato benefici economici o costi per la collettività, e neppure conseguenze per il suo datore di lavoro, in quanto non aveva avuto la necessità di sostituirlo. Gravità dell’inadempimento giustifica licenziamento Al contrario, per la corte, come per i giudici di merito, sussiste il giustificato motivo soggettivo. Infatti, a nulla rileva che abbia prestato la propria opera presso l’impresa del coniuge. La gravità dell’inadempimento si basa sulla violazione del divieto di svolgere, nel periodo di tempo dell’aspettativa concessa per gravi motivi familiari, qualsiasi attività lavorativa. Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo è stato ritenuto proporzionato a tale inadempimento, applicando le relative clausole generali in relazione all’espresso divieto normativo.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Violenza Psicologica Coniuge

La violenza psicologica nella coppia viene esercitata in diverse modalità, può configurare diversi tipi di reati come i maltrattamenti previsti dall’art. 582 c.p. e gli atti persecutori dell’art. 612 bis c.p. Violenza psicologica: definizione La violenza psicologica nella coppia è un tema che presuppone necessariamente un doppio approccio. Occorre infatti analizzare dal punto di vista prettamente psicologico quali sono i comportamenti che si traducono in una violenza psicologica e come questi sono in grado di tradursi in illeciti di rilevanza civile o penale a cui l’ordinamento ricollega determinati effetti. La definizione di violenza, in base alla definizione che ne ha dato l’antropologa Franciose Heritier nel 1997 è: “ogni costrizione di natura fisica, o psichica, che porti con sé il terrore, la fuga, la disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere animato; o ancora qualunque atto intrusivo che ha come effetto volontario o involontario l’espropriazione dell’altro, il danno, o la distruzione di oggetti inanimati”. Come si manifesta la violenza psicologica La violenza psicologica nella coppia è solo uno dei modi in cui può essere esercitata la violenza da un partner nei confronti dell’altro. La violenza psicologica infatti può essere esercitata in via esclusiva, ma il più della volte a questa si accompagnano la violenza fisica, economica e sessuale. Statisticamente sono soprattutto li uomini ad agire violenza nei confronti della donna, ma non è da escludersi l’ipotesi contraria. Per quanto riguarda le modalità attraverso le quali la violenza psicologica si può manifestare queste sono senza dubbio le condotte più frequenti:   – isolamento sociale, che si realizza attraverso comportamenti denigratori dei soggetti compresi nella sfera affettiva della vittima, come amici, parenti e colleghi di lavoro. Il carnefice però può anche trovare, volta per volta, delle scuse o delle giustificazioni, per impedire gradualmente alla vittima di frequentare i famigliari e gli amici o di recarsi al lavoro, con conseguente perdita dello stesso. In questo modo il partner diventa dipendente dall’altro, tanto da trasformarsi nel suo unico punto di riferimento;   – condotta controllante, che con l’avvento delle tecnologie si realizza soprattutto con il controllo dei messaggi, delle e-mail, delle chat e dei profili social, ma anche con il monitoraggio degli spostamenti, dell’abbigliamento e delle spese;   – denigrazione, che può essere espressa con insulti diretti alla persona con svalutazioni delle caratteristiche fisiche “sei brutta” “sei grasso” o delle sue capacità intellettive “sei stupida” “con capisci niente”; on svalutazione del ruolo che ricopre nella società “sei una pessima madre”, “sei un uomo che non vale niente”, “non vali niente come impiegata”; svalutazione dei risultati ottenuti nel lavoro o nello studio; offese pubbliche e ridicolizzazioni;   – accuse e attribuzione di colpe, finalizzate a far apparire come giustificata la condotta del carnefice “è colpa tuta se mi comporto così” “se ti comportassi diversamente non mi arrabbierei così tanto”;   – minacce rivolte alla persona o ai suoi cari di cui fanno parte figli, amici o parenti stretti, per costringerla a comportarsi come desiderato dal carnefice. Il manipolatore vittimista può arrivare a minacciare il suicidio se l’altra persona dovesse decidere di lasciarlo/a;   – indifferenza e silenzio: anche la totale indifferenza ai bisogni affettivi del partner è una forma di violenza psicologica. Poiché il soggetto abusante non vede l’altro componente della coppia come una “persona” ma come un oggetto, non è infrequente che dopo una discussione violenta desideri e forzi l’altro ad avere un rapporto sessuale, lo costringa, anche se ammalato/a ad occuparsi delle solite incombenze o rifiuti di accompagnare il partner dal medico, se necessario. Il silenzio o il tono del tutto neuro dell’aggressore è una delle forme più sottili di violenza psicologica, soprattutto se la vittima, ormai esasperata, fa esplodere la sua rabbia e alza la voce, salvo poi sentirsi dire che ha problemi di mente, che esagera, che è fuori di testa. Gaslighting: la manipolazione psicologica Una forma particolarmente subdola di violenza psicologica che si riscontra nelle coppie è il anche gaslighting. Il carnefice, attraverso informazioni del tutto false, riesce a insinuare il dubbio nella mente della vittima sulle sue capacità di percezione, memoria, analisi e valutazione della realtà che la circonda. L’obiettivo è di farla sentire confusa, di destare in lei dei sospetti, di farla sentire del tutto inadeguata. L’abusante può arrivare a negare certi fatti della realtà, soprattutto episodi di maltrattamenti o violenza, inventare fatti mai esistiti o mettere in scena, come una recita, situazioni assolutamente strane che non fanno che confondere la vittima. Conseguenze della violenza psicologica sulla salute La violenza psicologica produce tutta una serie di conseguenze negative assai rilevanti sulla salute fisica e psicologica della vittima. In genere essa determina l’insorgenza di ansia, depressione, stress e disturbi del sonno. Un soggetto vittima di violenza sviluppa la depressione in una misura di 5 o 6 volte superiore rispetto a chi non ha un vissuto di violenza. Parimenti più elevata è la possibilità di sviluppare un disturbo post traumatico da stress. Maggiore inoltre la probabilità, per le donne in particolare, di essere colpite da un cancro alla cervice uterina. Conseguenze penali della violenza psicologica La violenza psicologica dal punto di vista normativo configura diverse fattispecie di reato, a seconda della condotta tenuta dal soggetto aggressore. Maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p.  Questa norma si occupa nello specifico delle condotte maltrattanti che vengono esercitate all’interno delle mura domestiche e quindi anche nella coppia. La norma punisce le condotte maltrattanti in danno di un soggetto della famiglia o comunque di un convivente. La pena base, da tre a sette anni di reclusione, sale se il reato è commesso in danno di una donna in stato di gravidanza o di un disabile. Se poi la condotta provoca una lesione grave o gravissima la reclusione può arrivare fino a 24 anni. Lesioni personali art. 582 c.p.  Il reato di lesioni personali punisce chi cagiona a un soggetto una malattia nel corpo o nella mente con la reclusione da sei mesi fino a tre anni. Dalla lettera della norma è evidente la sua applicabilità anche alle “malattie” della mente che possono scaturire

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Nessun diritto all’assegno di divorzio per chi decide di non lavorare

Perde il diritto all’assegno di divorzio chi, durante il matrimonio, sceglie di fare la signora rinunciando alla carriera nonostante il personale domestico che bada a casa e figli Assegno di divorzio, il fatto Perde il diritto all’assegno di divorzio chi, durante il matrimonio, sceglie di fare la signora rinunciando alla carriera nonostante la colf che bada a casa e figli. Questo è il principio ispiratore dell’ordinanza n. 18697/2022 della prima sezione civile della Cassazione. Stante la funzione perequativa dell’assegno di divorzio la Suprema corte ha rigettato la domanda di attribuzione dello stesso nel caso in cui, dopo la separazione, pur mantenendo integra la propria capacità lavorativa, il coniuge ha scelto di non mettere a frutto le proprie competenze professionali che l’avevano portata a pubblicare nel 2013 un libro di ricette, a collaborare con gallerie d’arte, quale esperta nel settore, ed a partecipare all’organizzazione di mostre. Assegno di divorzio, autosufficienza economica Richiamandosi a quanto affermato dalla corte d’appello, la suprema corte riporta il principio di diritto enunciato dalla sentenza delle sezioni unite 18287 del 2018 in cui si dice che il «riconoscimento dell’assegno di divorzio cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive (…) e, in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economiche patrimoniali delle parti, in considerazione del tributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniuge, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto. L’orientamento viene espresso dalla Cassazione nella decisione 11504 del 2017 che, per la prima volta, ha affermato che l’indagine sull’an debeatur dell’assegno divorzile in favore del coniuge richiedente non va ancorata al criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ma quello dell’autosufficienza economica». Nessun lavoro nonostante la colf badasse ai figli L’altro motivo fatto ripreso dalla Cassazione, riportato dai giudici territoriali, è il fatto che il matrimonio non aveva avuto una lunga durata e che le cause della sua fine erano attribuibili entrambi gli ex coniugi. Infine secondo quanto accertato nelle fasi precedenti del giudizio, la donna non aveva dato nessun contributo alla formazione del patrimonio comune, avendo scelto di non intraprendere un’attività lavorativa, nonostante avesse sempre potuto contare sull’apporto del personale domestico nella gestione delle figlie e della casa.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Quando è risarcibile il danno non patrimoniale?

In quali casi ed in che modo è possibile ottenere il risarcimento dei pregiudizi non economici subiti. Se ti è capitato di subire un danno vorrai probabilmente essere risarcito da colui che te lo ha procurato. Tale danno potrà essere qualificato come patrimoniale quando consiste in un pregiudizio di tipo economico. Si pensi alle spese mediche sostenute a seguito di un incidente stradale, o ancora, alle spese di riparazione dell’automobile. Tuttavia, il concetto di danno non è solo quello economico. Può ben accadere, infatti, che oltre ai pregiudizi di tipo patrimoniale, un soggetto subisca anche dei pregiudizi non connotati da rilevanza economica. In questi casi, si parla di danni non patrimoniali. Quando è risarcibile il danno non patrimoniale? Tornando al caso dell’incidente stradale, le sofferenze patite a causa della perdita di un familiare vittima dell’incidente, o le lesioni alla salute subite, rientrerebbero senz’altro in tale nozione di danno. In questo articolo, ti spiegheremo quando è risarcibile il danno non patrimoniale. Danno patrimoniale: che cos’è? Il danno è patrimoniale quando il danneggiato lamenta un pregiudizio ad un bene suscettibile di valutazione economica (per esempio, all’automobile). Si tratta cioè di una perdita economica subita che deve essere quantificata sia in termini di spese sostenute a causa dell’evento (danno emergente), che in termini di mancato guadagno e, quindi, impoverimento del proprio patrimonio (lucro cessante). Nel caso dell’incidente stradale saranno ascrivibili alla prima categoria le spese sostenute per la riparazione del veicolo, mentre apparterranno alla voce del lucro cessante i mancati guadagni derivanti dai tempi di riparazione del mezzo. Si pensi al caso di un tassista costretto a non poter lavorare sino all’avvenuta riconsegna del mezzo. Per ottenere la riparazione del pregiudizio subito il danneggiato potrà chiedere il risarcimento del danno per equivalente o il risarcimento del danno in forma specifica. Nel primo caso, chiederà una somma di denaro equivalente all’entità del danno subito, nel secondo caso potrà invece ottenere il ripristino della situazione che sarebbe esistita ove l’illecito non si fosse verificato (la riparazione dell’automobile nel caso del sinistro stradale). Danno non patrimoniale: quando è risarcibile? Il danno è non patrimoniale quando il danneggiato lamenta un pregiudizio ad un bene insuscettibile di valutazione economica (per esempio, alla salute). Tale voce di danno, seppur deve essere considerata unitariamente, viene storicamente suddivisa in tre categorie a carattere descrittivo:   – danno biologico: consiste nel pregiudizio all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale e indipendente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità reddituale. È quindi il caso di danno alla salute, all’integrità psico-fisica, all’aspetto esteriore ecc.;   – danno morale: definito come il patema d’animo o la sofferenza soggettiva provata dalla vittima di un illecito. Si pensi alle sofferenze patite dalla vittima di condotte persecutorie (stalking), al soggetto vittima di mobbing sfociato in un ingiusto licenziamento o, ancora, al dolore sofferto dai parenti della vittima di un omicidio;   – danno esistenziale: rappresentato dal peggioramento della qualità di vita di un soggetto o dalla radicale alterazione delle sue abitudini e del suo stile di vita. È il caso, ad esempio, di un soggetto sfigurato a causa di un errato intervento chirurgico. Chiarito cosa si intende per danno non patrimoniale, è necessario ora comprendere quando tale tipologia di danno può essere risarcita. Orbene, il danno non patrimoniale può essere risarcito esclusivamente nei seguenti casi:   – quando il fatto illecito integra una fattispecie penalmente rilevante, si pensi ad un soggetto vittima di minacce e percosse.   – quando vi è un’espressa previsione di legge che ne riconosce la risarcibilità. È il caso, ad esempio, dei danni cagionati da illecito trattamento dei dati personali o del cosiddetto danno da vacanza rovinata;   – e, infine, come chiarito a più riprese dalla Corte di Cassazione, quando il danno è conseguenza della lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente tutelati. Tuttavia, onde evitare un uso distorto di tale strumento, i giudici hanno anche chiarito che deve trattarsi di un danno “serio” e di una lesione “grave” ai diritti inviolabili della persona. Non potrai cioè chiedere il risarcimento per meri fastidi subiti o per danni del tutto immaginari. Alcuni esempi di danni non patrimoniali Vediamo quindi alcuni casi particolari nei quali la giurisprudenza ha riconosciuto la sussistenza di un danno non patrimoniale. La Cassazione ha individuato il cosiddetto danno biologico terminale nelle consapevoli sofferenze e nell’agonia sofferte – per un apprezzabile lasso temporale – da un individuo prima di decedere. In un altro caso, i giudici hanno ravvisato un danno da nascita indesiderata nella condotta del medico che, omettendo o errando una diagnosi relativa alla malformazione del feto, non permette ai genitori di decidere consapevolmente se interrompere o meno la gravidanza. Si pensi, infine, al danno alla propria immagine, ovverosia il danno conseguente alla lesione subita alla propria reputazione e identità personale.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Atti vandalici all’auto: è legittimo filmare il colpevole?

Auto danneggiata da righe con la chiave: che valore ha la ripresa video? Si può usare per la denuncia e la richiesta di risarcimento del danno?  Partiamo subito col dire che il reato di danneggiamento è stato depenalizzato con esclusione solo delle ipotesi in cui la cosa danneggiata è «esposta alla fede pubblica». Tale è la situazione in cui l’auto si trova su una strada pubblica o in un luogo privato aperto al pubblico (come ad esempio il parcheggio di un supermercato o di un cinema). In quest’ultima ipotesi, dunque, c’è ancora spazio per la querela. La querela deve essere presentata entro 3 mesi da quando il fatto è stato commesso o scoperto. Se non si conosce il nome dell’autore del reato ma si è in possesso di una sua descrizione o di una foto è possibile presentare la querela contro «persona da identificare». Diversamente, quando non si è a conoscenza del colpevole, la querela – per quanto utile possa essere – andrà depositata «contro ignoti». Detto ciò, vediamo cosa si può fare per procurarsi la prova dell’illecito. Si può filmare una persona che riga la macchina? Sicuramente, le riprese video o le registrazioni audio, quando compiute in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sono lecite a meno che non integrino gli estremi del reato di molestie. Sarebbe una molestia fotografare una persona sconosciuta che passeggia senza dar alcun fastidio a nessuno. Filmare una persona mentre commette un reato o comunque un altro illecito (ad esempio sta offendendo e ingiuriando un passante, occupa un posto auto per invalidi, ecc.) è consentito a patto che la registrazione venga conservata per sé stessi, non venga diffusa a terzi, non venga pubblicata su Internet e se ne faccia comunque un uso conforme alla legge. Tale uso deve quindi essere rivolto a tutelare i propri o gli altrui diritti. Dunque, riprendere una persona mentre riga una macchina è consentito a patto che il filmato non venga caricato su un profilo social o comunque inoltrato ad altre persone ma venga impiegato per scopi giudiziari. Il file video può essere quindi sia utilizzato per sporgere la querela, sia per procedere in via civile con una richiesta di risarcimento del danno. Circa la possibilità che tale documento video possa costituire prova, nell’ambito del diritto penale e civile non vi sono problemi di sorta, purché la qualità delle riprese sia tale da rendere pienamente riconoscibile il colpevole. Non vi devono cioè essere incertezze in merito alla sua identità, come invece potrebbe succedere qualora il responsabile venga ripreso alle spalle, senza che il volto possa essere individuato. Nell’ambito del processo civile, la ripresa video viene classificata come una “riproduzione meccanica” che fa prova salvo che la parte contro cui è prodotta non la contesta. Ma la contestazione non può essere generica: al contrario, deve suggerire al giudice le ragioni per cui il filmato non può ritenersi attendibile. Diversamente, il magistrato dovrà assumere il file come prova dell’illecito e fondare la propria decisione anche solo su di esso. Si tenga conto che per ottenere il risarcimento contro chi riga l’auto è possibile agire in due modi:   – in sede penale, dopo che le indagini sono terminate ed è iniziato il processo vero e proprio contro l’imputato, attraverso la costituzione di parte civile, mediante un proprio avvocato. In tale sede il giudice fisserà, con la condanna, anche una «provvisionale»: una sorta di risarcimento in via forfettaria. Il danneggiato potrà poi agire in via civile per l’esatta quantificazione del danno e per chiedere l’eventuale differenza;   – direttamente con una causa civile per il risarcimento del danno. Danno ovviamente, anche in questa sede, da dimostrare attraverso il preventivo dell’officina. Si tenga infine conto di altre due importanti questioni. Secondo la giurisprudenza, il filmato può essere ottenuto anche puntando una telecamera direttamente dal balcone di casa propria contro l’auto, a patto che non riprenda parti comuni del condominio (come il cortile) o pubbliche (come la strada). Inoltre, in mancanza di prove fotografiche o video, è possibile ottenere la prova del fatto e dell’identità del colpevole tramite la testimonianza oculare di un passante o di chiunque altro abbia assistito alla scena.