Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Se la ex moglie non cerca lavoro, il marito e’ assolto dal mantenimento
Se la ex moglie non cerca lavoro, il marito e’ assolto dal mantenimento È piuttosto raro che i figli, soprattutto se ancora minorenni, vengano affidati al padre. Interessante per questo l’ordinanza del Tribunale ordinario di Busto Arsizio del 7 luglio 2022 che ha disposto il collocamento di due minori presso l’abitazione paterna, scelta scaturita dalla positiva esperienza dei minori – collocati presso il padre ma accuditi dalla zia. La decisione è stata presa dopo la constatata insofferenza della madre nei confronti del percorso comunitario e la sperimentazione fatta in questo periodo in relazione ai minori presso la residenza del padre. Esperienza positiva per i bambini anche grazie alla sorella del ricorrente, figura molto valida di accudimento. Il padre da parte sua si è dimostrato molto collaborativo, perché si è sottoposto alle valutazioni del Sert, che hanno dato esito negativo. Tribunale Ordinario Busto Arsizio – I Sez. Civile – Ordinanza del 07.07.2022
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Assegno di mantenimento: Nuova relazione
In caso di nuova relazione, il coniuge che ne ha diritto non perde in automatico il diritto al mantenimento. Le conseguenze che la nuova convivenza dell’e-partner può avere sull’assegno di mantenimento sono stabilite dalla decisione n. 18862/2022 della Cassazione, secondo la quale “La prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte del convivente more uxorio di uno dei coniugi può assumere rilievo soltanto ai fini della valutazione delle condizioni economiche del beneficiario, che costituiscono uno dei parametri di riferimento per il riconoscimento e la liquidazione dell’assegno di mantenimento in suo favore (…). Sebbene debba escludersi ogni automatismo tra l’instaurazione di una nuova relazione sentimentale e la perdita del diritto all’assegno, occorre che il giudice prenda in considerazione i caratteri di stabilità e continuatività del nuovo legame, astrattamente configurabili anche in assenza di coabitazione con il partner, e che ad esso si accompagni l’elaborazione di un diverso progetto di vita, caratterizzato dalla condivisione di nuovi bisogni, interessi, abitudini, attività e relazioni sociali, tali da comportare il superamento del modello familiare cui era improntata la pregressa esperienza coniugale, e con esso del tenore di vita precedentemente goduto.” Cass. Civ. – Sez. I – Ordinanza n. 18862 del 10.06.2022
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Stop all’assegno di mantenimento grazie a detective privato
Per il tribunale di Napoli, decisive le prove prodotte dall’investigatore privato nell’ottenere la revoca dell’assegno di mantenimento alla ex Assegno di mantenimento e detective In sede di divorzio un uomo ha chiesto ad un investigatore privato di accertare la capacità reddituale della ex moglie al fine di rideterminare l’assegno di mantenimento. Nel corso dell’attività investigativa il detective privato ha rilevato che la donna presta attività di collaboratrice domestica, circostanza poi confermata nel corso della sua testimonianza. L’esito dell’accertamento investigativo ha consentito di escludere la componente assistenziale dell’assegno che, insieme a quella perequativa-compensativa, è finalizzata a ristabilire una situazione di equilibrio fra le parti. Stop all’assegno di mantenimento: la decisione del tribunale di Napoli Secondo il Giudice (Tribunale Napoli, 1° sez. civ., sentenza n. 6249 del 21.6.2022) non ci sono i presupposti per un assegno assistenziale e perequativo-compensativo in quanto l’investigazione privata ha dimostrato la capacità della donna di produrre reddito, e perché la stessa ha percepito un assegno di mantenimento per ben undici anni. Questa ultima circostanza è stata ritenuta sufficiente per ristorarla dei sacrifici compiuti nel corso del matrimonio. La donna, inoltre, in considerazione della giovane età (44 anni) ha capacità lavorative, anche perché la separazione è avvenuta quando aveva circa 30 anni e ben poteva già da allora intraprendere una attività maggiormente remunerativa di quella attuale. Oltretutto la stessa non ha dimostrato di avere delle capacità e degli obiettivi che ha accantonato durante il matrimonio per dedicarsi interamente alla famiglia. Pertanto, il mantenimento percepito durante la separazione è stato ritenuto più che sufficiente a “risarcirla” degli eventuali sacrifici e delle rinunce (oltretutto non dimostrate) effettuate nel corso della vita matrimoniale.
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Separazione e assegno di mantenimento pagato dal terzo
Il ricorso ex art. 156 co. 6 c.c. presuppone l’inadempimento del pagamento del mantenimento dovuto dal coniuge obbligato e può essere intrapreso per ordinare al terzo, che deve somme all’obbligato, di pagare al coniuge destinatario Separazione e assegno di mantenimento pagato dal terzo L’Inps paghi alla moglie il mantenimento dovuto dal marito in base a quanto disposto dalla sentenza di separazione. Il ricorso ex art. 156 comma 6 c.c. è infatti finalizzato a garantire il diritto di credito del coniuge avente diritto al mantenimento. In caso d’inadempimento del coniuge obbligato il giudice può infatti ordinare a terzi, che devono somme periodiche all’obbligato, come il datore di lavoro, di pagare direttamente al beneficiario l’importo stabilito dalla sentenza di separazione. Lo ha stabilito il Tribunale di Milano con la sentenza n. 11239 del 9 giugno 2022. Ricorso ex art. 156 c.c. comma 6 per il mantenimento Una moglie separata ricorre al Tribunale di Milano chiedendo la disposizione del pagamento in suo favore da parte dell’Inps, della somma mensile disposta dal giudice a titolo di contributo al mantenimento conseguente alla separazione personale dal marito. Costui infatti fino a quel momento non ha mai provveduto al versamento delle somme dovute. Il ricorso avviato dalla donna è quello previsto dall’articolo 156 comma 6 del codice civile il quale dispone che: “In caso di inadempienza, su richiesta dell’avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte di beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto.” Paghi l’Inps il mantenimento alla moglie separata Il Tribunale di Milano, accogliendo la richiesta della ricorrente, ordina all’Inps di pagare direttamente alla stessa, precisando che il ricorso ex articolo 156 comma 6 ha una funzione di garanzia rafforzata del credito, ma la decisione giudiziale dello stesso non risolve una controversia sull’esistenza del diritto. Il Tribunale in questi ricorsi è tenuto solo a verificare, data l’obbligazione disposta da un provvedimento giudiziale a carico di uno dei coniugi, l’esistenza dell’inadempimento, che è il presupposto previsto dall’articolo 156 per disporre il pagamento diretto all’avente diritto. È infatti onere del convenuto obbligato provare il fatto estintivo della pretesa altrui ovvero l’avvenuto adempimento. Nel caso di specie però è vero il contrario, ossia è pacifico l’inadempimento del convenuto all’obbligazione di mantenimento per la moglie, che ha provato la fonte del suo diritto e ha anche allegato il perdurante inadempimento del coniuge. Il coniuge obbligato, al contrario, benché a conoscenza del giudizio presente, non ha dimostrato di aver assolto all’onere a suo carico, provando l’avvenuto adempimento. All’Inps quindi si ordina di pagare alla ricorrente la somma mensile di 350,00 euro a titolo di contributo al mantenimento come stabilito dalla sentenza di separazione.
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_promessa di matrimonio
Con la promessa di matrimonio, ex artt. 79-81 c.c., i nubendi manifestano la volontà di contrarre matrimonio anche se tale dichiarazione non li obbliga alla celebrazione Promessa di matrimonio nel codice civile La promessa di matrimonio, anche se ha origini arcaiche, è disciplinata dal codice civile agli articoli 79, 80 e 81 perché in base a quanto sancito dall’art. 29 della Costituzione, la famiglia, per il nostro ordinamento, si fonda sul matrimonio. Questi tre articoli nel tempo non hanno subito modifiche, neppure quando è intervenuta la Riforma del Diritto di Famiglia nel 1975. La formulazione elastica delle disposizioni ne ha permesso infatti l’applicabilità nonostante il mutamento dei costumi sociali. Il codice civile, per quanto riguarda la promessa di matrimonio, si occupa di disciplinarne le conseguenze giuridiche, precisando all’art. 79 che “la promessa di matrimonio non obbliga a contrarlo né ad eseguire ciò che si fosse convenuto per il caso di non adempimento”. Dalla lettera della norma si evince in sostanza che la dichiarazione contenuta nella promessa non può avere carattere vincolante, poiché la libertà matrimoniale (scegliere di sposarsi o meno) rappresenta nel nostro ordinamento un diritto fondamentale della persona, quindi la volontà di contrarre matrimonio deve rimanere libera, spontanea e non coartata. Da qui la previsione di una disciplina specifica relativa alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto della promessa, ovvero dalla mancata celebrazione delle nozze. Tipologie di promessa di matrimonio Si possono rintracciare due tipologie di promessa matrimoniale, la promessa di matrimonio semplice e la promessa solenne, cui sono legati effetti e conseguenze differenti nel caso in cui alle stesse non seguano le nozze. Promessa di matrimonio semplice La promessa semplice (cd. fidanzamento ufficiale) è un atto, anche unilaterale, privo di particolari forme o requisiti con il quale si manifesta la volontà di unirsi in matrimonio. Questo tipo di impegno si qualifica pertanto come mero fatto sociale dal quale sorge in capo ai futuri coniugi unicamente un dovere di tipo morale a contrarre matrimonio. Promessa di matrimonio solenne L’art. 81 del codice civile disciplina invece la promessa solenne di matrimonio che può effettuarsi in due modalità: 1) con un impegno assunto vicendevolmente da persone di maggiore età, o dal minore ammesso a contrarre matrimonio, espresso in forma scritta (atto pubblico o scrittura privata); 2) con la richiesta di pubblicazione di matrimonio secondo le modalità previste dall’art. 93 c.c. Promessa di matrimonio in comune o in chiesa La promessa di matrimonio, da non confondere con le promesse che gli sposi si scambiano durante il rito nunziale, può essere fatta in comune o in Chiesa. Con la promessa di matrimonio si rende ufficiale il passaggio dallo stato di fidanzati a quello di promessi sposi. Promessa di matrimonio in comune: quali documenti? Il luogo deputato a ricevere la promessa di matrimonio è il Comune e precisamente l’Ufficio dello Stato civile o l’Ufficio Matrimoni. Per procedere con la promessa di matrimonio è necessario predisporre prima tutta la documentazione necessaria: * documento d’identità dei promessi sposi; * modulo di richiesta per la pubblicazione di entrambi; * nulla osta al matrimonio se i promessi sposi sono cittadini stranieri; * la marca da bollo per le pubblicazioni (e i prossimi alle nozze sono stranieri occorre la marca da bollo per la legalizzazione, un’altra ed eventuale marca da bollo può essere necessaria se la richiesta di matrimonio viene rivolta a un altro Comune). Attenzione, perché se uno o entrambi gli sposi contraggono seconde nozze occorre produrre anche la copia integrale dell’atto di matrimonio precedente con tanto di annotazione della sentenza di scioglimento di matrimonio e della sentenza e la copia integrale dell’atto di matrimonio precedente, con l’annotazione a margine della sentenza della Sacra Rota se il matrimonio religioso precedente è stato annullato. Attenzione, non è necessario che siano presenti entrambi, se uno dei due si trova impossibilitato a presenziare, può conferire delega all’altro, allegando alla delega il proprio documento d’identità. Verificata la documentazione l’ufficiale dello stato civile dà lettura degli articoli, fa sottoscrivere l’atto, dopodiché si procede con le pubblicazioni, che possono essere effettuate in due Comuni diversi se i futuri sposi sono originari di due entri comunali differenti. Trascorso il tempo delle pubblicazioni, se nessuno si oppone alle nozze, gli sposi possono celebrarle con rito civile in Comune o in Chiesa. Anche in questo caso seguono le pubblicazioni. Concluse il periodo delle stesse viene rilasciata l’attestazione di avvenuta pubblicazione. Promessa di matrimonio in Chiesa La promessa di matrimonio in Chiesa si distingue da quella in Comune perché gli sposi in questo caso devono produrre il certificato che attesta la frequentazione e la validità del corso prematrimoniale, il certificato della compiuta comunione, il certificato della cresima e il documento con cui si manifesta il consenso religioso al matrimonio, che viene rilasciato all’esito del “processetto matrimoniale” che consiste in una serie di domande con cui si accerta la serietà delle intenzioni dei futuri sposi. Quanto tempo prima va fatta la promessa di matrimonio La promessa di matrimonio va eseguita preferibilmente due mesi prima delle nozze, precisando che si tratta di una formalità che, a differenza delle nozze vere e proprie, non richiede la presenza di testimoni. Tempi più lunghi, in genere attorno ai sei mesi, sono invece necessari se gli sposi sono stranieri. Possono infatti volerci tempi più lunghi per chiedere e ottenere i documenti necessari alle nozze. Effetti e conseguenze della promessa di matrimonio Pur non obbligando i nubendi a contrarre matrimonio, la scelta dell’uno o dell’altro tipo di promessa non è indifferente dal punto di vista giuridico patrimoniale. Restituzione dei doni Se alla promessa semplice non fa seguito il matrimonio, il codice civile all’art. 80 prevede che il promittente possa chiedere la restituzione dei doni fatti a causa della promessa, proponendo domanda entro un anno dal giorno del rifiuto di celebrare il matrimonio o della morte di uno dei promittenti. I doni da restituirsi sono quelle attribuzioni a titolo gratuito, valide ed efficaci, evidentemente giustificate dal fidanzamento/futuro matrimonio (es. anello di fidanzamento). I doni sono vere e proprie donazioni Doni che, come precisato dalla Cassazione n.
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Obbligo di fedeltà del lavoratore
L’obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro, previsto e disciplinato dall’art. 2105 c.c. contempla il divieto di non concorrenza e l’obbligo di riservatezza, che se non vengono rispettati hanno conseguenze civili, penali e disciplinari Obbligo di fedeltà del lavoratore: in cosa consiste La fedeltà del lavoratore dipendente, assieme alla diligenza contemplata dall’art. 2104 c.c. sono i principali obblighi a cui è tenuto il lavoratore dipendente nei confronti del proprio datore. Il dovere di fedeli in particolare è disciplinato dall’articolo 2105 del codice civile. Detta norma dispone letteralmente chi: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.” Dalla lettera della norma emerge che il dovere di fedeltà contempla al suo interno due obblighi negativi che devono essere rispettati da parte del prestatore di lavoro: * il divieto di concorrenza; * l’obbligo di riservatezza. La Cassazione con la recente pronuncia n. 03543/2021 ha precisato che il dovere di fedeltà sancito dall’art. 2015 c.c. si traduce “nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, senza necessità che esse siano idonee ad integrare una concorrenza sleale, a termini degli arti. 2592, 2593 e 2598 c.c. (Cass. 5 aprile 1990, n. 2822; Cass. 30 gennaio 2017, n. 2239), riguardi la concorrenza che il prestatore possa svolgere non già, dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella che egli abbia svolto illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso (Cass. 19 luglio 2004, n. 13394; Cass. 29 agosto 2014, n. 18459).” Limiti dell’obbligo di fedeltà L’obbligo di fedeltà, ovviamente, non è assoluto. Come ribadito dalla recente Cassazione n. 17689/2022: “Si è infatti escluso che l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., così come interpretato da questa Corte in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all’interno dell’azienda, giacché in tal caso si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento (Cass. n. 4125 del 2017; n. 6501 del 2013). Ciò sul rilievo che lo Stato di diritto attribuisce valore civico e sociale all’iniziativa del privato che solleciti l’intervento dell’autorità giudiziaria di fronte alla violazione della legge penale, e, sebbene ritenga doverosa detta iniziativa solo nei casi in cui vengono in rilievo delitti di particolare gravità, guarda con favore alla collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell’interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti” Una sentenza decisamene più risalente, la n. 13329/2001 sempre della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito invece che non è licenziabile il lavoratore part time con contratto di formazione che svolge anche attività lavorativa per conto di un’impresa concorrente. Per la Cassazione infatti la violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’at. 2105 c.c., sotto il profilo della trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l’imprenditore, si configura solo quando tale concorrenza si risolva in prestazioni non già meramente esecutive, bensì di carattere intellettuale di rilevante autonomia e discrezionalità. In altre parole, sono coloro che fanno parte del personale impiegatizio più altamente qualificato ad essere in grado di porre in essere quella concorrenza più intensa, comunemente definita differenziale, che il legislatore ha inteso reprimere. Conseguenze della violazione Il mancato rispetto dell’obbligo di fedeltà da parte del prestatore di lavoro comporta ai sensi dell’articolo 2106 del codice civile applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione. Alle sanzioni disciplinari si accompagnano anche conseguenze di natura penalistica. L’articolo 623 del codice penale punisce chiunque, venuto a conoscenza per ragione del suo stato ufficio o professione o arte di segreti di natura commerciale o di notizie destinate a rimanere segrete in relazione a scoperti o invenzioni scientifiche, le rivela o le impiega per il proprio per l’altrui profitto è punito con la reclusione fino a due anni. La stessa pena è applicata anche a chi acquisisce in modo abusivo segreti commerciali e poi gli rivela o l’impiega per il proprio o per l’altrui profitto. La pena viene aumentata se il reato viene commesso tramite strumenti informatici. trattasi di reato punibile a querela della persona offesa. Giusta causa di licenziamento Il mancato rispetto dell’obbligo di riservatezza e del divieto di concorrenza integra senza dubbio una giusta causa di licenziamento, in quanto, come ha avuto modo di chiarire la Cassazione nella sentenza n. 14319/2017: “La fiducia è un fattore che, per l’oggetto della prestazione del rapporto di lavoro e per la protrazione di quest’ultimo nel tempo, condiziona, con la propria esistenza, l’affermazione del rapporto stesso e, con la propria cessazione, la negazione (cfr. Cass. 23.6.1998 n. 6216). 8. E’, pertanto, il fondamentale strumento di definizione di ciò che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto e può avere una intensità differenziata, rispetto alla funzione della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni, del grado di affidamento che queste esigono, nonché può essere modulata in funzione del fatto concreto (cfr. Cass. 2.2.1998 n. 1016), con riguardo alla sua portata oggettiva e soggettiva, alle circostanze, ai motivi, alla natura e alla intensità dell’elemento psicologico. Assume, poi, determinante rilievo la potenzialità, che ha il fatto addebitato, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento (cfr. Cass. 27.11.1999 n. 13299).” Obbligo di fedeltà dopo la fine del rapporto L’obbligo di fedeltà può permanere anche dopo la fine del rapporto di lavoro. Le parti, ossia datore e lavoratore possono addivenire a un patto di non concorrenza ai sensi dell’art. 2125 c.c. che però è valido solo
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Insulta l’ex moglie sui social
L’argomento proposto dalla difesa del leale comportamento processuale del ricorrente è stato giudicato come elemento non significativo a fronte della condotta penalmente rilevante dell’imputato Nessuna esimente dello stato d’ira per l’ex marito che su Facebook insulta l’ex moglie al termine di una separazione travagliata. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la sentenza 24614/2022 . Nella vicenda, la corte d’appello di Catania ha confermato la decisione del tribunale della stessa città che, con rito abbreviato, aveva dichiarato colpevole di reato diffamazione aggravata un soggetto per aver offeso l’onore e la reputazione dell’ex moglie pubblicando frasi offensive nei confronti della stessa su un social network. Avverso la sentenza il ricorso dell’imputato «aveva dedotto la violazione di legge e l’omessa motivazione in relazione agli articoli 595 e 599 al 2° comma del codice penale per non avere la Corte territoriale applicato l’esimente della reazione d’ira provocata da fatto ingiusto altrui». A tal proposito la difesa riferiva che «la reazione dell’imputato benché non immediata è non di meno maturata nel contesto di un lavorante conflitto interpersonale e di un clima caratterizzato da contrasti minacce e vessazioni da parte dell’ex moglie che ostacolava soprattutto la frequentazione tra quest’ultimo e la prole e la famiglia stessa, che avrebbe provocato un persistente stato d’ira nel ricorrente». Lo stesso aveva eccepito «la violazione di legge e omessa motivazioni in relazione all’articolo 62 bis del codice penale, nel momento in cui la Corte d’appello, «nel denegare l’applicazione delle attenuanti generiche, si sarebbe limitata a una motivazione puramente reiterativa degli argomenti già espressi sull’esimente prevista dall’articolo 599 del codice penale». Secondo la difesa invece l’asserita mancanza del fatto ingiusto non sarebbe sufficiente a giustificare anche la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche». La difesa a sostegno delle proprie tesi invoca il «leale comportamento processuale del ricorrente». Il terzo motivo eccepito riguarda la violazione di legge e l’omessa motivazione in relazione all’articolo 157 del codice penale con la richiesta al collegio di accertare se sia maturato il termine di prescrizione dei reati. Nesso di causalità Secondo la Corte di Cassazione sono non pertinenti rispetto alla «specificità del caso in esame i rilievi della difesa relativi alle tante sfaccettature che può della reazione in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, rilevante fini della riconoscibilità dell’invocata esimente». Nonostante la copiosa giurisprudenza riportata in cui viene ribadito «come l’immediatezza della reazione debba essere intesa in senso relativo ed elastico non si attaglia all’argomento principale sviluppato nella motivazione della sentenza impugnata cioè il mancato riscontro di un comportamento ingiusto della persona offesa, saldamente ancorato alle risultante processuali». In particolare per la Corte d’appello «un mero stato di contrasti o rancore tra le parti non integra una situazione per la quale possa ritenersi che il fatto ingiusto asseritamente patito dall’agente determini improvvisamente lo stato d’ira. Nel rilevare la mancata prova del nesso di causalità tra reazione dell’imputato e asserito fatto ingiusto, i giudici di appello hanno fatto buon uso dell’orientamento della Corte di cassazione secondo cui «nel delitto di diffamazione ai fini della configurabilità dell’esimente di cui all’articolo 599 del codice penale, ancorché non rilevi la proporzione tra la reazione e il fatto in giusto altrui, occorre tutta via che sussista un nesso di causalità determinante tra il fatto provocante ed il fatto provocato, non essendo sufficiente il legame di mera occasionalità (sezione 5 numero 39508 dell’11/05/2012)». Espressioni offensive con la consapevolezza di ledere la reputazione altrui Per gli ermellini dunque, il profilo rilevante «è stato individuato dalla Corte territoriale nella volontà cosciente e libera di adoperare espressioni offensive con la consapevolezza della loro attitudine a ledere la reputazione altrui. Questo tipo di volontà così caratterizzata basta per integrare il dolore generico richiesto ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione». Quindi in modo corretto la Corte territoriale ha ritenuto che, qualora tale volontà esista, nessuna rilevanza può attribuirsi affini e ai moventi dell’agente che possono al limite assumere rilievo solo per giustificare l’eventuale concessione di attenuanti o riduzione della pena. Attenuanti o riduzione della pena che la Corte ha ritenuto invece di escludere proprio in vista di quell’animus diffamanti che ha così chiaramente connotato la condotta dell’imputato». La sentenza perciò «ha coerentemente applicato il principio consolidato secondo il quale in tema di diffamazione per la sussistenza dell’elemento soggettivo non si richiede che sussista l’animus iniuriandi vel diffamanti, essendo sufficiente il dolo generico che può assumere la forma del dolo eventuale in quanto è sufficiente che l’agente consapevolmente faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive». Più in generale il problema è l’individuazione del bene giuridico protetto dai primi 2 commi dell’articolo 595 del codice penale che tutelano «non soltanto la dignità individuale ed esistenziale, ma anche e soprattutto quella sociale, connotandosi la lesione alla reputazione come violazione del rapporto di riconoscimento dell’uomo. Realtà che vive nella società e non al di fuori di esso sarà dunque oggetto di tutela la proiezione della persona nella vita di relazione. Nella condotta in contestazione – spiega ancora la sentenza «giudici di appello hanno giustamente individuato un tipo di narrazione espressa via Facebook, con evidenti conseguenze in termini di diffusività e rapidità della comunicazione proprio dei social media, indubbiamente dotata di idoneità lesiva, al contempo dell’onore e della reputazione. Considerate queste premesse legittimamente la corte d’appello ha ritenuto di escludere sia la sussistenza dell’esimente della provocazione sia l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, profilo quest’ultimo posto nel secondo motivo del ricorso giudicato da questo collegio del pari inammissibile». A questo proposito la Corte territoriale ha giustificato la mancata concessione delle circostanze considerati che «i precedenti penali riportati dall’uomo e l’assenza di qualsivoglia elemento positivo neppure evidenziato dalla difesa dal quale poter ricavare che lo stesso meritaste un trattamento sanzionatorio più mite. L’argomento proposto dalla difesa del leale comportamento processuale del ricorrente è stato evidentemente giudicato da quest’ultima come elemento non significativo a fronte della condotta penalmente rilevante dell’imputato». In questo modo «la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è stata giustificata nella sentenza che viene impugnata con la motivazione esente da manifesta illogicità che
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Cyber security
La cybersecurity o sicurezza informatica, è l’insieme dei mezzi, delle tecnologie e procedure finalizzati alla protezione dei sistemi informatici da attacchi mirati a sottrarre dati e informazioni o a compromettere gli stessi sistemi Cybersecurity: cos’è La cybersecurity è l’insieme di tutte le tecniche, mezzi e tecnologie che consentono di proteggere un sistema informatico da attacchi malevoli provenienti dall’esterno, mirati a sottrarre dati e informazioni o a compromettere il funzionamento del sistema stesso. Nel mondo contemporaneo, la sicurezza informatica rappresenta un argomento di primaria importanza. Ogni ambito della vita quotidiana, soprattutto lavorativo e professionale, è ormai coinvolto in un sistema di relazioni digitali e informatiche, grazie alla costante connessione “always on” su reti internet pubbliche o private. Il tema della protezione di reti e sistemi informatici, pertanto, è in continuo sviluppo non solo dal punto di vista tecnico, ma anche da quello giuridico e normativo, come testimoniano i più recenti provvedimenti adottati a livello nazionale e comunitario. Interessi in gioco: dai dati sensibili ai segreti industriali La posta in gioco, per quanto attiene il tema della cybersecurity, è davvero alta, perché coinvolge interessi di persone e aziende, di privati ed enti pubblici, di imprese e professionisti. Da alcuni anni, ormai, sono all’ordine del giorno le notizie che riportano episodi di attacchi informatici, più o meno estesi, il cui obiettivo può essere mutevole: dai dispositivi elettronici di uso comune, come smartphone e pc, alle reti aziendali, dai profili dei social network alle grandi banche dati in possesso di enti pubblici, banche e istituti sanitari e farmaceutici. Oggetto degli attacchi possono essere i dati sensibili delle persone, i file e i documenti in possesso della pubblica amministrazione, i codici di accesso alle caselle e-mail o a conti bancari e carte di credito, brevetti e progetti delle grandi industrie o la funzionalità stessa dei sistemi informatici di enti e aziende. L’escalation di attacchi informatici E i rischi sono ancora maggiori se si pensa che oggi gran parte dei dati informatici sono conservati in maniera virtuale, con i sistemi cloud, e che viviamo in piena epoca dell’Internet of Things, dove ogni accessorio, elettrodomestico, dispositivo elettronico è costantemente connesso a reti informatiche. Malware, spyware, attacchi DoS ad opera di hacker più o meno strutturati possono arrivare a mettere in crisi interi settori della società, dai trasporti alle comunicazioni: ne sa qualcosa anche l’ambito forense, che ha di recente conosciuto notevoli disagi per un esteso attacco alle caselle PEC dei professionisti legali. Interventi normativi in Italia e UE Proprio per questo motivo, la disciplina normativa e regolamentare in tema di sicurezza informatica appare in costante evoluzione, per dare risposte sempre più concrete ed efficienti all’eventualità di minacce che provengano dagli hacker e dal c.d. dark web, ma anche e soprattutto per sensibilizzare e creare una nuova consapevolezza negli utenti di ogni livello, dai semplici privati ai professionisti ed imprenditori, rispetto a tale fenomeno. Se è vero che a già a livello nazionale esistono strutture che hanno nella lotta al cybercrime il loro oggetto principale (si pensi ai CERT e CSIRT istituiti a livello ministeriale per la gestione delle emergenze informatiche), è importante che un simile impegno sia affrontato anche a livello comunitario. E proprio in quest’ottica rientra la recente adozione del c.d. Cybersecurity Act, con il Regolamento Europeo 881/2019 che mira, da un lato, a potenziare i poteri d’intervento dell’Agenzia dell’Unione Europea per la cibersicurezza (ENISA) in occasione di emergenze informatiche all’interno degli Stati membri, e dall’altro a creare un più pregnante sistema di certificazione in tema di cybersecurity per tutte le tecnologie informatiche e le reti di comunicazione. Cybersecurity Act e Direttiva NIS Il Cybersecurity Act, direttamente efficace in ogni Stato membro, va così ad affiancare la Direttiva NIS (Network and Information Security) del 2016, recepita in Italia con d.lgs. 65/2018, per creare un quadro normativo che si propone di coordinare, uniformare e standardizzare, per quanto possibile, le normative e le operazioni tecniche in tema di sicurezza informatica nei Paesi UE. La cyber security, in questo modo, diviene sempre più un aspetto che le imprese e ogni altro operatore devono considerare con attenzione sin dall’inizio dell’attività, anche nell’ottica di accrescere la fiducia dei consumatori nella fruizione di beni e servizi che comportano la connessione a reti informatiche. Ed è proprio in quest’ottica che gli interventi normativi sopra esaminati predispongono un dettagliato impianto di regole, destinato a tutti gli operatori, e in particolare a quelli attivi nei settori dei servizi essenziali e nella fornitura dei servizi digitali. In particolare, è prevista una serie di obblighi in tema di certificazione dei sistemi, di notifica in caso di emergenze informatiche, di trattamento dei dati personali, e ad essi è ricollegato un articolato sistema di sanzioni amministrative (ad es., v. art 21 del d.lgs. di recepimento della direttiva NIS). Si tratta pertanto di una serie interventi normativi quanto mai necessari e da tempo auspicati, in risposta al rilevante e sempre crescente fenomeno delle minacce informatiche, registrato negli ultimi anni nei più diversi ambiti. Direttiva NIS2 e CVCN Interventi normativi che però non si fermano qui. A livello europeo, nei primi mesi del 2022, anche a cause del conflitto Russia- Ucraina, è stata predisposta la bozza di un nuovo regolamento che eleva i livelli di sicurezza di istituzioni, agenzie e organi al fine di contrastare con più efficacia gli attacchi cyber. Consiglio e Parlamento hanno inoltre trovato un accordo sulla Direttiva NIS2 che innalza il sistema di sicurezza in tutta Europa e che si propone di rafforzare la risposta agli attacchi cyber sia nel settore pubblico che in quello privato. Direttiva questa che una volta pronta andrà a sostituire la precedente Direttiva NIS, che come abbiamo visto, è stata recepita in Italia con il Dlgs n. 65/2018. Centro di valutazione e Certificazione nazionale Il 2022 però è anche l’anno in cui il Centro di valutazione e di Certificazione Nazionale diventa operativo a partire dal 30 giugno. Trattasi di un organismo istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico, previsto dal dlgs n. 105/2019, contenente “Disposizioni urgenti in materia di perimetro di
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Pignoramento presso terzi: le novità della riforma del processo civile
Il pignoramento presso terzi ex art. 543 c.p.c. è una forma di esecuzione forzata che ha per oggetto beni del debitore in possesso di terzi ovvero crediti del debitore nei confronti dei terzi Cos’è il pignoramento presso terzi Secondo quanto previsto dalle norme del codice di procedura civile i creditori possono soddisfare le loro pretese aggredendo i beni del debitore in vari modi, differenti a seconda che questi siano mobili o immobili e che siano nella disponibilità del debitore o di un terzo. Il pignoramento presso terzi riguarda i beni del debitore che sono nella disponibilità del terzo. Più precisamente, l’articolo 543 c.p.c., che disciplina l’istituto, contempla due distinte ipotesi di pignoramento presso terzi: quella in cui il terzo sia in possesso di beni del debitore o quella in cui quest’ultimo vanti crediti nei confronti del terzo. Requisiti dell’atto di pignoramento presso terzi L’atto di pignoramento, notificato al terzo e al debitore, deve innanzitutto contenere l’ingiunzione a non compiere atti dispositivi sui beni e sui crediti assoggettati al pignoramento, come previsto in via generale dall’articolo 492 c.p.c.. In esso devono poi essere riportati l’indicazione, almeno generica, delle cose e delle somme dovute, l’intimazione al terzo di non disporne se non per ordine del giudice, la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il tribunale competente e l’indicazione dell’indirizzo p.e.c. del creditore procedente. L’atto deve infine contenere la citazione del debitore a comparire dinanzi al giudice competente, indicando un’udienza nel rispetto del termine dilatorio di pignoramento di cui all’articolo 501 c.p.c., e l’invito al terzo a rendere entro dieci giorni al creditore procedente la dichiarazione prevista dall’articolo 547 (della quale si dirà meglio in seguito), con l’avvertimento che in caso contrario, la stessa dovrà essere resa comparendo in un’apposita udienza e che se il terzo non compare o, sebbene comparso, non rende la dichiarazione, il credito pignorato o il possesso di cose di appartenenza del debitore si considereranno non contestati nell’ammontare o nei termini indicati dal creditore, ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione, se l’allegazione del creditore consente l’identificazione del credito o dei beni di appartenenza del debitore in possesso del terzo. Termini per l’iscrizione a ruolo del pignoramento L’originale dell’atto di citazione è consegnato al creditore senza ritardo dall’ufficiale giudiziario, non appena eseguita l’ultima notificazione. A questo punto il creditore deve depositare nella cancelleria del tribunale competente per l’esecuzione la nota di iscrizione a ruolo, con copie conformi dell’atto di citazione, del titolo esecutivo e del precetto, entro trenta giorni dalla consegna, pena perdita di efficacia del pignoramento. Obblighi del terzo pignorato Secondo quanto previsto dall’articolo 547 c.p.c., il terzo deve rendere al creditore procedente una dichiarazione, da farsi a mezzo raccomandata a/r o p.e.c. anche attraverso procuratore speciale o difensore munito di procura speciale, nella quale specifica di quali cose o somme è debitore o si trova in possesso e quando ne deve eseguire il pagamento o la consegna, i sequestri precedentemente eseguiti presso di lui e le cessioni che gli sono state già notificate o che ha accettato. Se sulla dichiarazione sorgono contestazioni o se a seguito della mancata dichiarazione del terzo non è possibile identificare esattamente il credito o i beni del debitore in suo possesso, il giudice, su istanza di parte, provvede con ordinanza, compiuti i necessari accertamenti nel contraddittorio tra le parti e con il terzo. Dal momento in cui gli è notificato l’atto di pignoramento, poi, il terzo è tenuto a rispettare gli obblighi imposti dalla legge al custode con riferimento alle cose e alle somme dovute e nei limiti dell’importo del credito precettato aumentato della metà. Crediti impignorabili In ogni caso, non tutti i crediti del debitore verso il terzo possono essere pignorati. Infatti sono impignorabili i crediti alimentari, tranne che per le cause di alimenti, i crediti aventi come oggetto sussidi di grazia o sostentamento a persone comprese nell’elenco dei poveri o dovuti per maternità, malattie o funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o da istituti di beneficenza. Crediti limitatamente pignorabili Con la riforma di cui al d.l. n. 83/2015, sono stati poi introdotti nuovi limiti con riferimento al pignoramento delle somme relative al rapporto di lavoro o di impiego. Nel dettaglio, le somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego (comprese quelle dovute a causa di licenziamento), possono essere pignorate per crediti alimentari nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato, mentre per i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni e per ogni altro credito possono essere pignorate nella misura di un quinto. Le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza, invece, secondo quanto previsto dalla recente riforma, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà, mentre la parte eccedente è pignorabile nelle misure previste per stipendio e salario e per le altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego. Nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore di tutte le predette somme, il d.l. n. 83/2015 ha previsto due diverse ipotesi. Nel caso in cui l’accredito in banca sia antecedente al pignoramento, esse potranno essere pignorate per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, mentre, se l’accredito è contestuale o successivo al pignoramento, esse potranno essere pignorate nella misura autorizzata dal giudice, in ogni caso non oltre il quinto. Se il pignoramento supera tutti i predetti limiti, la parte eccedente è inefficace. Pignoramento presso terzi: le novità della riforma del processo civile Il pignoramento presso terzi dal 22 giugno 2022 pone a carico del creditore un altro onere, anzi due, a pena d’inefficacia del pignoramento. La novità entra infatti in vigore a partire dal 180° giorno successivo all’entrata in vigore del 24 dicembre 2021 della Legge n. 206/2021, che ha conferito la
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Impugnazione del testamento
L’impugnazione del testamento è un’azione esercitabile, nei modi e nei tempi previsti dal codice civile, per farne valere i vizi che riguardano la forma, il contenuto, la capacità del testatore e i vizi della volontà Impugnazione del testamento: cos’è L’impugnazione del testamento è un’azione che può essere esperita solo dopo la morte del testatore. Dal punto di vista pratico per impugnare un testamento occorre redigere un atto di citazione davanti all’autorità giudiziaria competente, che coincide con il Tribunale collegiale del luogo in cui si è aperta la successione del de cuius. Occorre tuttavia ricordare che le successioni ereditarie fanno parte di quelle materie per le quali il decreto legislativo n. 28/2010 impone la mediazione obbligatoria come condizione di procedibilità. Questo significa che prima di impugnare un testamento davanti al Tribunale è necessario esperire il tentativo preventivo di mediazione obbligatoria. Azioni giudiziarie contro il testamento Quando si desidera impugnare un testamento, le ragioni possono essere diverse, così come diverse sono le azioni che si possono intraprendere in base al vizio o al difetto che si ritiene infici l’atto di ultima volontà. – L’azione di annullamento è finalizzata ad ottenere una sentenza costitutiva in grado di eliminare le disposizioni testamentarie viziate – L’azione di nullità si pone l’obiettivo di dichiarare la nullità delle volontà testamentarie del de cuius. L’inesistenza, vizio creato dalla dottrina e dalla giurisprudenza riguarda quelle ipotesi in cui le alterazioni del testamento sono così gravi da impedirne il riconoscimento come tale. Simile per certi aspetti alla nullità, se ne discosta però per le conseguenze. – L’azione di riduzione infine è quella che viene riconosciuta in favore degli eredi legittimari che, a causa delle disposizioni testamentarie o di donazioni fatte in vita dal de cuius, subiscono la riduzione della propria quota. Accettazione eredità e impugnazione del testamento L’accettazione dell’eredità non ostacola l’impugnazione del testamento, che è atto separato. L’accettazione ha ad oggetto l’eredità devoluta, mentre il testamento è un negozio unilaterale. In alcuni casi l’accettazione dell’eredità è necessaria per poter procedere all’impugnazione del testamento. La distinzione tra accettazione e testamento emerge comunque dalla formulazione dell’art. 483 c.c, il quale dispone che: “L’accettazione dell’eredità non si può impugnare se è viziata da errore . Tuttavia, se si scopre un testamento del quale non si aveva notizia al tempo dell’accettazione, l’erede non è tenuto a soddisfare i legati scritti in esso oltre il valore dell’eredità, o con pregiudizio della porzione legittima che gli è dovuta . Se i beni ereditari non bastano a soddisfare tali legati, si riducono proporzionalmente anche i legati scritti in altri testamenti. Se alcuni legatari sono stati già soddisfatti per intero, contro di loro è data azione di regresso. L’onere di provare il valore dell’eredità incombe all’erede”. Vizi del testamento I vizi che possono determinare l’impugnazione del testamento sono classificabili nelle seguenti categorie: – vizi che riguardano la forma del testamento: il testamento olografo ad esempio deve essere sottoscritto dal testatore, mentre quello pubblico richiede necessariamente la redazione da parte di un notaio e la presenza di due testimoni. Il mancato rispetto di queste formalità vizia il testamento; – vizi relativi al contenuto testamentario: sono quelli che derivano dal mancato rispetto delle norme che regolano la formazione del contenuto delle disposizioni testamentarie; – vizi relativi alla capacità di disporre per testamento: pensiamo al testamento redatto da un soggetto che non ha ancora acquisito la capacità di agire come un minore; – vizi della volontà: sono quelli invece che alterano la manifestazione di volontà del testatore e sono l’errore, la violenza e il dolo. I vizi delle volontà, della capacità di disporre e della forma conducono all’azione di annullamento del testamento. Analizziamoli distintamente uno ad uno. Vizi della volontà e annullabilità del testamento Il primo comma dell’art. 624 c.c. prevede che la disposizione testamentaria possa essere impugnata da chiunque vi abbia interesse quando è l’effetto di errore, di violenza o di dolo. Tale disposizione è espressione del principio generale secondo cui un negozio giuridico è in genere invalido in presenza di un c.d. vizio della volontà. La disciplina sui vizi della volontà delle disposizioni testamentarie è in parte analoga a quella di cui all’art. 1427 e ss. del codice civile relativa ai vizi del consenso in ambito contrattuale, ma complessivamente intesa presenta delle caratteristiche peculiari. La differenza di disciplina si coglie avendo riguardo alla sostanziale assenza in materia testamentaria dell’esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi. La norma citata prevede infatti che la disposizione testamentaria possa essere impugnata ove sia “l’effetto” di errore, violenza e dolo, con ciò non richiedendo la riconoscibilità e l’essenzialità del vizio. In questi termini, nell’ambito della successione testamentaria, l’esigenza di carattere primario che l’ordinamento mira a tutelare è unicamente la libertà e volontà del testatore e conseguentemente l’accertamento della rilevanza del vizio verrà operato in concreto avendo riguardo esclusivamente alla volontà del de cuius. Diversamente da quanto previsto dall’art. 1428 c.c., in materia testamentaria, è irrilevante la circostanza che l’errore sia o meno riconoscibile. Ciò che rileva è che vi sia stata una falsa rappresentazione della realtà che abbia inciso in maniera determinante sulla volontà del testatore. Analogamente, in tema di dolo o violenza la giurisprudenza ha precisato che occorre dare la prova che i fatti di induzione abbiano indirizzato la volontà del testatore in modo diverso da come essa avrebbe potuto normalmente determinarsi. In base a quanto stabilito dal terzo comma l’azione di annullamento spetta a chiunque vi abbia interesse e si prescrive in cinque anni decorrenti dalla data in cui si è avuta notizia del vizio. Errore sul motivo L’assenza di qualsivoglia esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi nei termini di cui si è detto spiega anche perché, al secondo comma dell’art. 624 c.c, viene previsto tra le cause di annullamento anche l’errore sul motivo sia di fatto, che di diritto. Tale previsione rappresenta un ulteriore scostamento dalla disciplina contrattuale nella quale l’errore sui motivi è in via di principio irrilevante. La norma prevede infatti che l’errore sul motivo possa essere causa di annullamento della