Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Google contro i negazionismi e le fake news sulla guerra in Ucraina

Google ha dichiarato guerra alla guerra. E soprattutto a fake news e negazionismi. Così, ha fatto sapere che, a causa dell’invasione russa dell’Ucraina, la propria concessionaria di raccolta pubblicitaria, che remunera tutti i siti per i banner pubblicitari, ha in pausa la monetizzazione dei contenuti finalizzati a sfruttare, ignorare o giustificare la guerra. Questa misura è stata già applicata alle dichiarazioni relative alla guerra in Ucraina in caso di violazione delle norme esistenti (ad esempio, le norme relative ai contenuti dispregiativi o pericolosi vietano di monetizzare contenuti che incitano alla violenza o negano eventi tragici). Il comunicato è stato appena diramato da Google stessa a tutti i titolari di testate giornalistiche, siti, blog. Lo scopo è di chiarire, e in alcuni casi ampliare, le indicazioni per i publisher in relazione a questo conflitto. Questa sospensione della monetizzazione riguarda, a titolo esemplificativo: – dichiarazioni secondo cui le vittime sono responsabili della propria tragedia o affermazioni simili di condanna delle vittime; – dichiarazioni secondo cui l’Ucraina sta commettendo un genocidio o sta attaccando deliberatamente i suoi stessi cittadini. Del resto chi più di Google, in possesso dei satelliti e in grado di sapere cosa succede in ogni parte del mondo, conosce le fosse comuni e le stragi che si stanno perpetrando ai danni dei civili in Ucraina. La stessa società americana, all’indomani della guerra, come misura economica contro Putin, aveva sospeso la monetizzazione di tutti i siti russi che oggi non possono più guadagnare con la concessionaria Google.  

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Ucraina: Biden rischia di provocare guerra mondiale

I Paesi che affiancano la Russia contestano le accuse di genocidio rivolte dal presidente Usa a Putin. Ma anche Macron è critico per le eventuali conseguenze. Il peso delle parole, la forza delle parole. Le accuse a Joe Biden di continuare a mettere il dito nella piaga si moltiplicano. E non solo tra chi, dichiaratamente o per omissione, fiancheggia la Russia nella guerra all’Ucraina. Anche all’interno dell’Unione europea c’è chi chiede al presidente degli Stati Uniti di moderare i toni e di non gettare sul fuoco altra benzina (con quello che costa). Dopo essere stato il primo ad accusare la Russia di crimini di guerra, dopo aver bollato Vladimir Putin come «macellaio» che non può rimanere al potere, Biden ora alza di nuovo il tiro ed accusa il «dittatore» Putin di genocidio. Parola che indica il tentativo sistematico di eliminare uno specifico gruppo etnico, che finora gli esponenti dell’amministrazione americana si erano astenuti dal pronunciare. Ed il commento del Presidente, pronunciato durante un discorso sull’aumento dei prezzi della benzina in Iowa, e poi ribadito ai giornalisti che chiedevano un chiarimento, sembra aver spiazzato anche gli alleati, se oggi Emmanuel Macron ha detto di voler essere prudente con i termini evitando una escalation delle parole. «È accertato – ha puntualizzato il presidente francese – che sono stati commessi crimini di guerra da parte dell’esercito russo», sottolineando che «genocidio, ha un significato». Totò direbbe nel suo volutamente storpiato italiano: «Parli come badi». Secondo la definizione delle Nazioni Unite, costituiscono genocidio «atti commessi con l’intenzione di distruggere, totalmente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Il termine è stato usato per la prima volta dall’avvocato polacco Raphäel Lemkin nel 1944 per descrivere l’Olocausto degli ebrei ed è stato poi codificato come crimine internazionale da una convenzione internazionale del 1948, firmata da 150 Paesi, guarda caso Russia compresa. Nessuno, né all’Onu né da parte degli Usa, ha finora determinato che le brutalità commesse dai russi equivalgono a genocidio. Gli Stati Uniti hanno un processo per dichiarare casi di genocidio, che per esempio nelle scorse settimane ha portato il dipartimento di Stato a denunciare come genocidio la repressione dei Rohingya in Myanmar. «Sulla base di quello che abbiamo visto finora, abbiamo visto atrocità», ha detto la scorsa settimana il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan. «Abbiamo visto crimini di guerra, ma non abbiamo visto un livello di eliminazione sistematica degli ucraini che arrivi a livello di genocidio». Biden, però, non ha esitato ad usare questa parola: «I vostri bilanci familiari, la possibilità di fare il pieno, non dovrebbero dipendere dal fatto che un dittatore dichiari guerra e commetta genocidio dall’altra parte del mondo». E ancora: «Lasciamo che gli esperti legali internazionali decidano se sia o non sia, ma a me pare sicuramente che lo sia. È sempre più chiaro che Putin stia cercando di cancellare l’idea di essere ucraini, le prove si accumulano, sempre più prove arrivano delle orribili cose che i russi hanno fatto in Ucraina». Il problema è che le parole di Biden non solo lasciano perplessi Macron o altri leader europei ma anche – soprattutto – qualche Stato che affianca la Russia. È Il caso della Cina, che ha invitato il presidente americano a stare ben attento a come parla e a come si rivolge a Putin. Aumentare le tensioni – sostiene Pechino – non è proprio un’idea brillante in un momento così delicato. Perché il rischio di irrigidire le posizioni al punto di scatenare delle rappresaglie è molto concreto. Ci va di mezzo l’ipotesi di un conflitto internazionale, militare o economico che sia. Il che equivale ad una guerra mondiale. Al fianco di Biden si schiera soltanto il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky: «Chiamare le cose con il loro nome è fondamentale per resistere al male. Siamo grati per l’assistenza fornita sinora dagli Usa e abbiamo bisogno con urgenza di più armi pesanti per evitare ulteriori atrocità russe».  

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Le telecamere nascoste del datore incastrano il lavoratore infedele. 

Le telecamere nascoste del datore incastrano il lavoratore infedele. Non viola la privacy la telecamera che incastra il dipendente infedele sospettato di spionaggio in favore della Russia Le telecamere nascoste del datore sono utilizzabili nel processo penale in cui è imputato il dipendente. Le norme dello statuto dei lavoratori, che pure tutelano la riservatezza dei prestatori, non proibiscono i controlli difensivi sui beni dell’impresa e dunque è escluso che sussista un divieto probatorio per le registrazioni video realizzate sul luogo di lavoro per proteggere il patrimonio aziendale. Cassazione Sentenza 13649/2022

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_La moglie che sta divorziando passa ai raggi X reddito e patrimonio di lui

Grazie al fisco lei passa ai raggi X reddito e patrimonio di lui perché pende il giudizio di separazione. L’ex Equitalia (oggi Agenzia delle entrate-Riscossione) deve rilasciare i documenti richiesti sui dati presenti nell’anagrafe tributaria: denunce fiscali, dichiarazioni Iva, immobili di proprietà, locazioni a terzi e comunicazioni finanziarie. In vista della separazione la moglie può passare ai raggi X il reddito e il patrimonio dell’uomo che sta per diventare il suo ex marito. E il fisco deve collaborare, rilasciando tutta la documentazione patrimoniale richiesta, per quanto sia lungo l’elenco presentato dalla contribuente. Di più. Se per ipotesi nulla risultasse, e dunque l’interessato fosse sconosciuto all’erario, l’amministrazione dovrebbe rilasciare un certificato in tal senso. È quanto emerge dalla Sentenza 2399/2022, pubblicata dalla sesta sezione del Tar Campania. Si è formato ormai il silenzio-rifiuto sull’istanza della battagliera signora, che economicamente se la passa male al punto da essere ammessa al patrocinio dello Stato. Risulta tuttavia illegittima l’inerzia mostrata dall’Agenzia fiscale: i giudici amministrativi ordinano agli uffici di esibire le carte richieste. Il giudizio di separazione incombe e la ex vuole le ultime tre dichiarazioni dei redditi dell’uomo oppure ciò che risulta in materia all’anagrafe tributaria, più le certificazioni di eventuali sostituti d’imposta per la corresponsione di redditi da lavoro, che sia dipendente o autonomo. Senza dimenticare le dichiarazioni Iva e l’elenco di atti del registro, dal quale evincere ad esempio contratti per la locazione di immobili intestati all’interessato. E ancora i beni immobili e mobili di proprietà e le locazioni a terzi delle proprietà. Senza dimenticare le comunicazioni sul conto del marito inviate da tutti gli operatori finanziari alla banca dati del fisco, relative a rapporti continuativi, come i conti correnti, e a operazioni su titoli. È stata l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 19/2020 a chiudere il contrasto di giurisprudenza fra i sostenitori della privacy e quelli della trasparenza, chiarendo che gli atti in possesso del fisco costituiscono documenti amministrativi ai fini dell’accesso difensivo previsto ai sensi degli articoli 22 e seguenti della legge 241/90; un accesso che può essere domandato al fisco anche se nulla di analogo si chiede al giudice civile nella causa in materia di famiglia. E il diritto del privato può essere esercitato anche ottenendo copia dei documenti dall’amministrazione. Tar Campania Sentenza 2399/2022

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Lasciare il figlio da solo a casa: è abbandono del minore?

Integra il reato di abbandono del minore, ex art. 591 c.p., lasciare il figlio minorenne da solo a casa per una mezz’ora? L’articolo 591 del codice penale, stabilisce che “Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.” La norma impone il divieto di abbandono di determinati soggetti, i cd. soggetti deboli, che versano in particolari condizioni, da parte di chi è gravato dall’obbligo di garanzia, assistenza o cura verso gli stessi.   Il caso Un uomo, padre separato e con una causa di affidamento pendente, aveva lasciato il figlio di 12 anni, quasi 13, in casa da solo, il tempo di fare una passeggiata al parco con il cane. Tuttavia, il padre prima di uscire lasciava un cellulare al figlio affinché potesse chiamarlo in caso di bisogno. Il bambino approfittava del telefonino che aveva in uso per chiamare la madre, la quale, preoccupata del fatto che stesse solo, ordinava al figlio di chiamare le forze dell’ordine al numero 113. In seguito alla chiamata di cui sopra, è scattata la denuncia per il reato di abbandono del minore a carico di entrambi i genitori.   Abbandono del minore: cosa dice la Cassazione La giurisprudenza in casi analoghi si è espressa più volte, condannando padri e madri, di aver riposto eccessiva fiducia nella maturità dei figli minorenni, lasciandoli da soli per andare al lavoro o per fare la spesa. Difatti, la Cassazione ha sostenuto che: “rilevando ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto d’abbandono di persone minori esclusivamente la volontà dell’abbandono, la configurabilità del reato non è esclusa dalla convinzione del genitore che il figlio infraquattordicenne sia in grado di badare a se stesso o dalla circostanza che quest’ultimo sia affidato a soggetto non idoneo, come un coetaneo o un anziano privo del controllo di ordinarie situazioni di pericolo per l’incolumità propria e altrui” (Cass. sent. n. 9276/2009).   Conclusioni Anche se la giurisprudenza è molto severa sul punto, l’uomo potrà senza dubbio difendersi sottolineando sia l’insussistenza della volontà di abbandonarlo sia il breve tempo durante il quale si è protratto l’abbandono del minore ma anche la maturità dello stesso.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Utilizzo di Investigatori Privati fuori dall’orario di lavoro

La Corte d’Appello Civile di Roma, con una recente sentenza di ottobre, legittima l’utilizzo di investigatori privati per il controllo del lavoratore anche fuori dagli orari di lavoro. La controversia nasce a causa e per l’effetto di un controllo disposto dall’azienda Alfa (nome di fantasia) verso il proprio dipendente Beta (nome di fantasia) che usufruiva di permessi ex L. 104/1992. Alla società Alfa infatti era sorto “il giustificato dubbio che un dipendente in permesso svolga altre occupazioni incompatibili con lo scopo di tale beneficio e, perciò, si renda responsabile di un comportamento illecito di tale genere”. La Corte ha quindi ritenuto giustificato “il ricorso alla collaborazione di investigatori privati per verifiche al riguardo, né sono ravvisabili profili di illiceità a norma dell’art. 2, secondo comma, della L. n. 300 del 1970, il quale, prevedendo il divieto per il datore di lavoro di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza dell’attività lavorativa e il divieto per queste ultime di accedere nei locali dove tale attività è in corso, nulla dispone riguardo alla verifica dell’attività svolta al di fuori dei locali aziendali da parte dei dipendenti in malattia (cfr., in una fattispecie assimilabile alla presente, Cass. Sez. L, Sentenza n. 14383 del 03/11/2000). Infine sempre la Corte appone un nuovo suggello, favorevole all’attività investigativa, infatti afferma che il controllo demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio, da parte di un dipendente, dei permessi ex art. 33 L. 5 febbraio 1992, n. 104 (contegno suscettibile di rilevanza anche penale) non riguarda l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa. Sicché esso non può ritenersi precluso ai sensi degli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 4984 del 04/03/2014), così affermando il principio di diritto che è lecito l’utilizzo di investigatori privati per controllare il lavoratore anche fuori dall’orario di lavoro. La Corte inoltre assevera anche i comportamenti tenuti dagli investigatori in quanto riporta nella pronuncia che i due soggetti (investigatori A.C. e T.C.) che avevano effettuato i controlli sull’odierno reclamante per conto della XY Investigazioni (ingaggiata dalla società resistente) avevano confermato che nel febbraio del 2016 avevano effettuati i controlli sul D.G. appostandosi sotto la sua abitazione sita in via Z. C. e presso quella della nonna e di non avere visto il reclamante recarsi presso quest’ultima (via G. M. n.82, C.). Inoltre, il reclamante era stato visto recarsi con un cane presso un parco dove era rimasto per circa due ore; tutte le risultanze dell’attività di osservazione erano state incluse nel rapporto redatto dalla agenzia investigativa prodotto in giudizio, rapporto che in particolare è stato confermato dal teste C.T. “ Conclude con una nota positiva nei confronti degli investigatori che erano stati sentiti dal giudice e che poi la controparte avrebbe voluto rendere inattendibili. La corte interviene affermando che con riferimento all’attendibilità dei due investigatori privati la Corte osserva che le loro deposizioni non possono considerarsi inattendibili per il solo fatto che -a distanza di alcuni anni dai fatti- gli stessi non siano stati in grado di indicare le giornate specifiche in cui erano stati svolti gli accertamenti considerato che i medesimi avevano comunque confermato il contenuto del rapporto investigativo redatto all’epoca e quindi in prossimità temporale rispetto ai fatti di causa; inoltre il teste C.T. aveva riconosciuto l’odierno reclamante come la persona in relazione alla quale aveva effettuato gli accertamenti (cfr. verbale di udienza del 15/1/2018). Deve infine notarsi che, al contrario di quanto sostenuto nel reclamo, nel rapporto investigativo svolto per conto della società resistente sono contenute fotografie che ritraggono anche il viso del D.G. a conferma della circostanza che gli investigatori privati avevano effettivamente controllato il ricorrente all’epoca, inoltre, come confermato dai due investigatori privati, presso l’indirizzo della nonna comunicato a suo tempo dal reclamante ai fini della fruizione dei permessi era indicato il cognome della congiunta sul citofono (‘C.’). Una sentenza quindi che rende la giusta dignità al lavoro svolto dagli investigatori privati.

Sinistri stradali: come si determina la responsabilità in assenza del verbale della polizia e di multe?

Perché mai, in caso di incidente stradale, temere così tanto un concorso di colpa? Innanzitutto perché il risarcimento versato dall’assicurazione viene decurtato in proporzione alla percentuale di responsabilità riconosciuta a ciascun automobilista. E ciò vale sia per i danni alle auto che per quelli fisici. In secondo luogo perché, se il concorso è pari o superiore al 51%, la polizza fa un salto di due classi e dunque il premio annuale aumenta. Ma chi stabilisce il concorso di colpa in un incidente stradale? L’assicurazione, il giudice, la polizia, un perito, le parti? Per comprenderlo bisogna sapere come funzionano le pratiche di infortunistica stradale. Cos’è il concorso di colpa negli incidenti stradali? Il concorso di colpa è la situazione che si verifica quando il danno viene determinato da una condotta colpevole sia del danneggiante che del danneggiato. Il concorso può essere in misura paritaria (ossia al 50% ciascuno) o in misura differente (ad esempio al 75% e 25%). Questa seconda situazione si verifica quando uno dei due soggetti abbia concorso più dell’altro alla realizzazione del danno, ossia quando la responsabilità del primo è superiore a quella del secondo. Nell’ambito della circolazione stradale, il concorso di colpa è la regola. Si parte cioè sempre da un concorso di colpa, salvo prova contraria. L’articolo 2054 del Codice civile stabilisce infatti che la colpa si presume a carico di entrambi gli automobilisti se nessuno dei due riesce a fornire una duplice prova: quella di aver rispettato il Codice della strada; quella di aver fatto di tutto per impedire l’incidente, pur essendo dalla parte della ragione. Ciascun automobilista, laddove si accorga di un conducente che non rispetta il Codice, deve adottare un comportamento cauto e prudente per evitare lo scontro. Così, ad esempio, chi passa col semaforo verde, se si accorge di un’auto che non ha rispettato lo stop, deve lasciarla passare laddove questa abbia già occupato, o stia per occupare, l’incrocio. Insomma, non perché si è in regola coi limiti di velocità, con gli stop, con la precedenza e con le altre disposizioni sancite dalla legge, si ha automaticamente diritto al risarcimento del danno in caso di incidente. Serve infatti una valutazione complessiva del comportamento del conducente per verificare l’eventuale prevedibilità ed evitabilità del sinistro. Chi decide il concorso di colpa in caso di incidente stradale? Nel momento in cui avviene un incidente stradale, se sul luogo accorre la polizia, sarà questa ad eseguire i rilievi e ad accertare le responsabilità dei conducenti, eventualmente elevando la multa a chi ha violato il Codice della strada. Ed è proprio in base al verbale degli agenti che le assicurazioni si orienteranno per stabilire le rispettive colpe degli automobilisti. In assenza dell’intervento della polizia, la valutazione viene effettuata ex post da un perito dell’assicurazione, nominato dalla stessa compagnia a seguito della denuncia di sinistro fatta dall’assicurato. Tale esperto procederà ad un’analisi del caso concreto basandosi sugli elementi a propria disposizione come: le foto prodotte dall’assicurato, la verifica dei luoghi, eventuali tracce di frenate lasciate sull’asfalto, la presenza di segnaletica verticale ed orizzontale, i punti di contatto tra i due veicoli, dichiarazioni testimoniali. L’analisi del consulente è rivolta così ad accertare se vi sia o meno una responsabilità piena da parte di uno dei due conducenti. Come anticipato, in assenza di prove certe, l’assicurazione applicherà invece il concorso di colpa, risarcendo al proprio cliente solo la metà del valore del danno fisico e al veicolo. Quindi, a decidere in prima battuta il concorso di colpa è la stessa assicurazione chiamata a liquidare i danni all’automobilista che ne faccia richiesta. Se l’automobilista non condivide l’analisi dell’assicurazione, potrà rivolgersi al giudice affinché accerti le responsabilità, in contraddittorio con il conducente avversario. A questo punto, la decisione sul concorso di colpa ricadrà sul magistrato che, tuttavia, applicherà le stesse regole appena indicate. E quindi, sulla base dell’articolo 2054 del Codice civile, partirà da un concorso di colpa salvo prova contraria. A ben vedere anche il giudice affida la verifica delle cause del sinistro a un consulente tecnico, il cosiddetto Ctu (ossia consulente tecnico d’ufficio). Questi effettua una perizia contro cui le parti in causa possono presentare controdeduzioni anche a mezzo di consulenti di parte che parteciperanno alle operazioni peritali. All’esito del deposito della perizia elaborata dal Ctu, alle parti sarà data la possibilità di sollevare contestazioni o chiedere chiarimenti. In ultimo, il giudice tenderà a decidere proprio sulla base dell’analisi effettuata dal Ctu. Quindi, anche in fase giudiziale, a decidere il concorso di colpa, seppur formalmente è il giudice chiamato ad emettere la sentenza, è più che altro il consulente tecnico che effettuerà la perizia. Concorso di colpa: quali conseguenze? Come anticipato in apertura, il concorso di colpa consente di ottenere un risarcimento proporzionato alla percentuale di colpa accordata alla controparte. Pertanto, a titolo di esempio, se al danneggiato viene riconosciuto un concorso di colpa del 40%, questi otterrà un risarcimento pari al 60%. Solo un concorso di colpa superiore al 50% (e quindi dal 51% in poi) determina l’aumento della classe di merito.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Cosa succede se tampono una macchina in divieto di sosta?

Incidente stradale: chi tampona è sempre responsabile? Che succede se l’auto in divieto non era visibile? Cosa succede se tampono una macchina in divieto di sosta? Chi deve cioè risarcire i danni conseguenti all’incidente stradale? Da un lato c’è chi ha violato palesemente il Codice della strada per aver lasciato l’auto in presenza di un esplicito divieto; dall’altro c’è chi, magari per imprudenza o per eccesso di velocità, non si è accorto dell’ostacolo.  In verità, al quesito non è possibile fornire una risposta netta. E ciò perché tutto dipende da quanto prevedibile era l’auto ferma. Per stabilire quindi che succede se si tampona una macchina in divieto di sosta dobbiamo fare alcuni importanti chiarimenti. La responsabilità per l’incidente stradale Nel momento in cui si verifica un incidente stradale, si parte sempre da un concorso di colpa paritario, ossia al 50%: ciascun conducente quindi si vedrà risarcire solo metà del danno. Si può ottenere il risarcimento integrale solo a patto di fornire una duplice prova:  l’aver rispettato il Codice della strada; l’aver fatto di tutto per impedire il sinistro, pur in presenza di un altro automobilista indisciplinato. Ogni conducente deve prefigurarsi la possibilità che altri automobilisti trasgrediscano la legge e fare di tutto per evitare lo scontro, laddove prevedibile.  Incidente causato da auto in divieto di sosta Se l’incidente stradale è causato unicamente dall’auto in divieto di sosta, perché l’ostacolo da essa rappresentato non era né visibile né prevedibile, il relativo proprietario verrà considerato responsabile dell’evento. Si pensi al caso di una macchina lasciata in divieto di sosta dietro una curva, tanto da non poter essere vista in largo anticipo per evitarla.  Il danneggiato che vorrà rivendicare il risarcimento per i danni al proprio veicolo dovrà rivolgersi alla propria assicurazione per ottenere il risarcimento, la quale poi si rivarrà su quella del responsabile (secondo le regole del cosiddetto indennizzo diretto). Ecco perché anche le auto non utilizzate, che restano parcheggiate a bordo strada, devono essere in regola con la polizza Rca obbligatoria: in casi come questo, infatti, l’assicurazione dovrà coprire eventuali condotte colpevoli. L’auto parcheggiata in divieto e senza assicurazione subirà quindi le conseguenze di entrambi tali illeciti.  Tamponamento di un’auto in divieto di sosta Diversa è la soluzione di chi, per imprudenza o negligenza (ad esempio nell’uscire da un parcheggio senza eseguire correttamente la manovra), tampona l’auto in divieto di sosta. In tali casi, bisogna distinguere due diversi tipi di rapporti:  il rapporto tra il conducente in divieto di sosta e la Pubblica Amministrazione, che darà luogo a una sanzione amministrativa nei confronti di quest’ultimo per la violazione del Codice della strada;  il rapporto tra conducente tamponante e il proprietario dell’auto tamponata, che darà invece luogo al diritto di risarcimento in capo a quest’ultimo.  In buona sostanza, se l’auto in divieto era visibile, il conducente alla guida della propria vettura aveva l’obbligo di evitare lo scontro, adottando tutte le regole di prudenza e diligenza, al di là dell’infrazione commessa dal primo, al quale quindi sarà imputabile solo la multa stradale ma non anche i danni conseguiti dallo scontro. Si potrà tutt’al più valutare i presupposti di un concorso di colpa nel caso in cui proprio la posizione dell’auto in divieto abbia costituito una concausa dell’incidente, favorendolo o comunque rendendo più difficile la manovra all’altro automobilista.  Cosa succede se tampono l’auto in divieto e scappo? In assenza di danni a persone (come nel caso di chi tampona un’auto parcheggiata, vuota all’interno), chi scappa senza fornire le generalità della propria assicurazione commette un’infrazione al Codice della strada punibile con una sanzione amministrativa da euro 296 a euro 1.184. Non sono previste conseguenze penali, le quali sorgono solo se dall’incidente derivano feriti. Se però dal fatto consegue un grave danno ai veicoli coinvolti tale da determinare l’applicazione della revisione dell’auto, si applica la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da quindici giorni a due mesi. Per evitare queste conseguenze bisognerebbe lasciare un foglio con un avviso sul tergicristalli dell’auto incidentata, chiedendo di essere ricontattati per fornire i dati della propria assicurazione. O, in alternativa, si può prendere il numero della targa e poi, tramite il Pra, chiedere le generalità del relativo titolare.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Omessa comunicazione al padre del concepimento

Il diritto alla paternità: la madre deve informare il compagno del fatto di essere incinta o di avere avuto un bambino sempre che sappia o possa sapere l’identità del padre e che non vi siano pregiudizi per il figlio. Immaginiamo che una coppia non sposata si lasci quando lei è già incinta. La donna però non ha detto al compagno di essere incinta: gli ha cioè nascosto la propria gravidanza temendo che il padre potesse un giorno inserirsi nell’educazione del bambino, vietarle magari di trasferirsi in un’altra città e compromettere la sua libertà nel rapporto col nascituro. Ebbene, cosa rischia la madre in caso di omessa comunicazione al padre del concepimento? Può quest’ultimo un giorno ottenere un risarcimento del danno per essersi visto negare la possibilità di conoscere e riconoscere il proprio figlio, di crescerlo, di amarlo, di avere con lui quel rapporto che ogni Costituzione tutela e garantisce? Sul punto è già intervenuta la Cassazione. Alla Corte è stato chiesto se esista una norma che obblighi la madre a comunicare al partner la propria gravidanza o se invece questa è libera di non comunicargli la nascita del bambino. Chiaramente, ci stiamo riferendo alle situazioni in cui non vi sono stati episodi di violenza domestica: se l’uomo infatti dovesse essere stato denunciato per reati commessi ai danni della donna, in particolare quello di maltrattamenti in famiglia, non vi sarebbe dubbio che la donna possa allontanarsi da casa e, temendo per l’educazione del figlio, non dire nulla a quest’ultimo. Dovere della madre di comunicare al padre la gravidanza La Suprema Corte ha detto che non esiste un’esplicita disposizione normativa che imponga alla madre di comunicare la propria gravidanza al padre. Il legislatore ha cioè “dimenticato” di inserire tale obbligo tra quelli dei genitori. Né la si può evincere dal dovere legale, in capo al padre naturale, di riconoscere sempre il proprio figlio. Ciò nonostante – prosegue la Cassazione – un simile dovere è comunque implicito nell’ordinamento. Sicché, si può ritenere illecito il comportamento della madre che nasconde la gravidanza al padre. «Illecito» però solo nella misura in cui si provi che questa l’ha fatto con dolo o colpa, ossia sapendo o potendo ben conoscere l’identità del padre. Quindi, se la madre, avendo avuto rapporti non protetti con un uomo, è poi risultata incinta ha il dovere di comunicare a quest’ultimo la propria gravidanza, così come quest’ultimo ha a sua volta poi il dovere di riconoscere il figlio come proprio e mantenerlo – insieme alla madre, e ciascuno in proporzione alle proprie capacità economiche – finché il giovane non diventa autonomo economicamente. Dicevamo che non esiste una legge che ponga, in capo alla madre, il dovere di comunicare il concepimento al padre; ma secondo la Cassazione tale norma si può evincere dall’articolo 2043 del Codice civile a norma del quale «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». E qui il «danno ingiusto» consiste certamente nella negazione della paternità e del diritto/dovere ad esercitare le proprie attribuzioni di genitore. Quindi, a fronte di tale pregiudizio, al padre spetta il risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti della madre. Eccezioni al dovere di comunicare la gravidanza al padre La Cassazione poi fa un’ulteriore precisazione: l’obbligo di comunicare al padre lo stato di gravidanza può trovare un limite nel caso in cui vi sia un «apprezzabile interesse del nascituro»: si pensi alla madre che sfugga ad un uomo violento, a un ricercato oppure che celi la propria gravidanza dopo essere stata violentata. Come anticipato, restano altresì esclusi i casi in cui la donna, incolpevolmente, non conosca l’identità del padre. Il principio di diritto In sintesi, nella sentenza in commento, viene formulato il seguente principio «La condotta della madre che abbia omesso di comunicare al padre del nascituro l’avvenuto concepimento, se posta in essere con dolo o colpa, può integrare gli estremi di una responsabilità civile, ex art. 2043 c.c., poiché suscettibile di arrecare un pregiudizio, qualificabile come danno ingiusto, al diritto del padre naturale di affermare la propria identità genitoriale. Nel caso di specie, la S.C. rigetta la domanda risarcitoria del padre, sul presupposto che questi ha sempre negato il riconoscimento del figlio, e le condotte successive non hanno dimostrato né la relazione con la madre, né il desiderio di essere genitore». Il danno da occultamento del figlio La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, si è pronunciata sul diritto alla genitorialità del padre leso dal comportamento doloso della madre che, omettendo di comunicare al primo l’avvenuto concepimento, gli ha impedito di esercitare il proprio diritto alla genitorialità, da intendersi come riflesso del diritto all’identità personale. L’importanza che tale sentenza riveste nel panorama giurisprudenziale italiano, dunque, deve ravvisarsi nella particolare attenzione che essa pone sul diritto alla genitorialità. Infatti, nella maggior parte dei casi, i giudici si sono trovati ad affrontare la questione concernente il diritto del minore a crescere in un sano contesto familiare e ad essere accudito da entrambi i genitori ma non quella relativa al diritto del genitore ad esplicare il suo status genitoriale nei confronti del figlio. Il diritto che viene leso è quello alla genitorialità. Orbene, se quindi una persona ha diritto ad esercitare sin dalla procreazione il ruolo di genitore, esplicando la propria personalità attraverso questo « nuovo » status, l’altro genitore deve tempestivamente informarlo della nascita del figlio. Al momento della nascita, dunque, sulla madre incombe, secondo il condivisibile approdo giurisprudenziale in commento, un diritto-dovere di informare il padre dell’evento procreativo, in modo da porlo in condizione di esplicare il suo diritto alla genitorialità. Tale dovere di informazione non potrebbe neanche considerarsi limitato o escluso nel caso in cui la madre stessa non sappia di quale uomo sia figlio il concepito: in tal caso, infatti, la donna dovrebbe assolvere ai predetti obblighi informativi nei confronti di tutti gli uomini rispetto ai quali nutra il dubbio. Pertanto, una volta assodato che, in capo alla madre, sussiste l’obbligo di informare il padre della nascita

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Mobbing e stalking: quali rapporti?

Quale reato è configurabile quando le molestie, le vessazioni e gli atti persecutori avvengono sul luogo di lavoro? La terminologia anglosassone è entrata di prepotenza anche nel tradizionale mondo giuridico. Così molti reati vengono ormai chiamati, anche nelle aule di giustizia, con i loro nomi all’americana, anziché secondo le denominazioni codicistiche. Si tratta in molti casi di nomi nuovi per fenomeni vecchi, ma purtroppo molto frequenti e allarmanti, come le prevaricazioni e vessazioni compiute sul posto di lavoro o le molestie persecutorie che avvengono in ambito extra lavorativo, nei luoghi ricreativi ed anche tra le mura domestiche. A volte, però, questi fenomeni si incrociano, come nel caso del mobbing e dello stalking: quali rapporti ci sono tra queste due figure delittuose? Non è solo una questione di classificazione, anche se il diritto ha bisogno di ragionare “per categorie”. La nostra domanda ha una notevole implicazione pratica, perché, volendo ritenere i due reati distinti, essi possono concorrere tra loro, e allora il reo riceverà una pena complessiva più grave; viceversa, se la condotta criminosa è ricompresa in entrambe le fattispecie, si applicherà solo la pena per il reato prevalente e l’altro verrà assorbito (come avviene, ad esempio, nel reato di lesioni personali, che assorbe quello di percosse, o con l’estorsione, che comprende la violenza privata). Inoltre, va considerato che questi casi di intreccio tra diversi reati sono molto frequenti, specialmente quando le condotte illecite vengono compiute in ambito lavorativo. I casi borderline e di difficile inquadramento giuridico sono parecchi. Ad esempio: un dirigente di una società che vessa continuamente i suoi dipendenti commette mobbing o stalking? Della questione dei rapporti tra le due fattispecie di reato si è occupata di recente la Corte di Cassazione, che ha dato la sua autorevole risposta: il caso rientra nel delitto di stalking aggravato dall’abuso di autorità. La sentenza che esamineremo è molto interessante perché analizza i confini, le reciproche interferenze e le possibili sovrapposizioni tra queste due fattispecie di reato. Mobbing: cos’è? Il mobbing consiste in una serie di comportamenti ostili compiuti nei confronti di un lavoratore da un suo superiore o dai colleghi. Nel primo caso, si ha il mobbing verticale (detto anche “bossing”); nel secondo caso, il mobbing è orizzontale, in quanto avviene tra lavoratori di pari o analogo livello, senza subordinazione gerarchica della vittima. C’è anche il caso – più raro – di mobbing ascendente, che avviene quando il bersaglio delle ostilità compiute dai dipendenti è il datore di lavoro o un manager. Il mobbing ripetuto per un apprezzabile periodo di tempo – ad esempio per alcuni mesi – può provocare serie lesioni della salute del dipendente, anche a livello psicologico (disturbi adattativi, ansia, depressione, attacchi di panico, ecc.) e attaccare anche la sfera morale della sua dignità di persona. Gli effetti peggiori del mobbing consistono proprio nella degradazione, mortificazione ed emarginazione del lavoratore colpito. Il mobbing non coincide con un’unica figura di reato, ma può integrare, a seconda dei modi illeciti in cui viene compiuto, varie figure delittuose, dalle minacce alle lesioni personali, dalla diffamazione all’estorsione. Per avere un’idea dell’ampio ventaglio di fattispecie configurabili puoi leggere l’articolo: “Mobbing: quale reato?“. Il mobbing può costituire reato anche quando gli atti isolatamente considerati sono leciti, ma vengono compiuti con intento persecutorio. In questi casi, conta il fine che unifica le diverse condotte. Stalking: cos’è? A differenza del mobbing, il reato di stalking è univoco: è definito dall’art. 612 bis del Codice penale come «atti persecutori», consistenti in minacce o molestie ripetute, che ingenerano nella vittima almeno una di queste tre conseguenze: – un perdurante e grave stato di ansia o di paura; – un fondato timore per la sua incolumità (o per quella di un prossimo congiunto o di una persona legata da una relazione affettiva); – la costrizione a modificare le proprie abitudini di vita. Lo stalking non riguarda soltanto le relazioni familiari e quelle affettive (anche se sono questi i casi più comuni) ma può verificarsi in qualsiasi ambiente in cui si instaurano rapporti tra l’agente e la vittima, come un condominio, la scuola o una palestra frequentata da entrambi. Perciò, è possibile che lo stalking avvenga anche sui luoghi di lavoro: aziende, uffici, negozi, studi professionali, laboratori artigiani. Si tratta del cosiddetto “stalking occupazionale“. Anche in questi casi, come nel mobbing, l’autore delle molestie o minacce può essere il datore di lavoro, un superiore gerarchico, un collega o anche un sottoposto. Pure i modi di commissione del reato sono molteplici e spaziano dai messaggi insistenti alla presenza assillante e ossessiva; possono comprendere anche contestazioni disciplinari pretestuose, minacce di licenziamento senza un vero motivo, diffusione di voci denigratorie e infondate. Quando il mobbing diventa stalking Il mobbing può diventare stalking sul lavoro quando – come afferma la giurisprudenza – c’è una «mirata reiterazione di pluralità di atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro», in modo da causare un grave stato d’ansia o paura o la costrizione a modificare le abitudini di vita della persona offesa. In questa prospettiva, il «nucleo essenziale» dello stalking sul lavoro è costituito dallo «stato di prostrazione psicologica» della vittima degli atti persecutori. La nuova sentenza della Cassazione intervenuta sul tema dei rapporti tra mobbing e stalking specifica ulteriormente questi concetti in relazione al caso di un dirigente di una società pubblica che aveva vessato continuamente alcuni suoi dipendenti, arrivando a minacciarli di cementarli in un pilastro. La Suprema Corte non ha dubbi nell’affermare che il mobbing, inteso come la reiterata attuazione di condotte volte ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinate a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, può integrare il delitto di atti persecutori». Il Collegio sottolinea che «l’ambiente di lavoro non è una zona franca dello stalking», specialmente «quando il datore di lavoro compie un abuso di potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi». Nel caso esaminato dai giudici di piazza Cavour, l’imputato «aveva reiteratamente minacciato le persone offese di cementarle in un pilastro, li ha invitati a confrontarsi