Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Il mobbing familiare è causa di addebito della separazione?
Il coniuge che dimostra di aver subito un vero e proprio mobbing dal partner può chiedere l’addebito della separazione? Vediamo cosa dicono la legge e la giurisprudenza. In cosa consiste il mobbing? Il mobbing è una continua svalutazione psicologica della vittima, mediante la messa in atto di comportamenti prepotenti, coercitivi e vessatori, finalizzati a rendere fragile e manipolabile la sua intera persona. Il mobbing all’interno dell’ambito familiare (cd. mobbing coniugale/familiare) consiste in attacchi e accuse sistematiche nei confronti del proprio coniuge, ovvero convivente. In altre parole consiste nel tentativo di sminuire il suo ruolo nell’ambito familiare, attivando continue provocazioni immotivate ovvero pressioni affinché il coniuge abbandoni il tetto coniugale ovvero venga escluso dalla gestione economica familiare ecc.. Anche il mobbing familiare, se perpetuato per lunghi periodi, può portare a danni nella sfera psicofisica della persona, che possono sfociare in sindrome ansioso-depressiva o in un disturbo post-traumatico da stress, con i sintomi caratteristici di angoscia, senso di inefficacia, diminuzione dell’autostima, oltre ai disturbi fisici collegati. Il caso Una donna si è rivolta allo studio della scrivente costretta dal marito ad abbandonare il tetto coniugale. Difatti, la coppia è entrata in crisi a causa dei comportamenti persecutori del marito, che avevano reso la convivenza intollerabile. La signora era continuamente vessata e posta in condizioni di inferiorità, veniva emarginata dalle decisioni sulla condizione familiare, con atteggiamenti sprezzanti sulla sua inferiorità economica, denigrata anche pubblicamente come moglie e come madre, ma soprattutto anche dinnanzi ai due figli. Come si esprime la giurisprudenza sul mobbing familiare Si è cominciato a parlare di “mobbing familiare”, grazie una sentenza della Corte di Appello di Torino che ha ritenuto il mobbing quale causa dell’addebito della separazione, individuando determinati comportamenti lesivi della dignità del coniuge contrastanti con i doveri che derivano dal matrimonio. Tuttavia, come ha specificato in seguito a più riprese anche la Corte di Cassazione, il mobbing coniugale non può solo essere considerato motivo di addebito della separazione, poiché attesta la gravità delle aggressioni dell’agente (dalla perdita della stima personale a quella genitoriale e professionale, dall’aggressione morale in ambito familiare a quella in ambito sociale), è necessario anche sottolineare la responsabilità civile nei rapporti coniugali e, di conseguenza, della risarcibilità dei danni ex art. 2043 c.c. , subiti dalla vittima del mobbing familiare. A ben vedere la Corte di Cassazione con la nota ordinanza n. 21296/2017, sancisce il legittimo l’addebito della separazione per chi pratica “mobbing familiare” nei confronti del coniuge, con vessazioni tali da costringere il partner ad abbandonare la casa coniugale. Tuttavia, tale comportamento rileva anche sotto il profilo del risarcimento per il danno subito, pertanto una volta ottenuto l’addebito della separazione sarà necessario intentare un’altra causa per ottenere detto risarcimento. Conclusioni Per la cliente è stato ottenuto l’addebito della separazione dimostrando le violenze subite dal marito e si è in attesa di ottenere anche il risarcimento del danno, chiesto in separata sede, poiché il giudice della separazione non è competente.
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Incidente su strada di campagna: opera l’assicurazione
Su quali strade copre la polizza assicurativa Rc-auto: il sinistro stradale su uno sterrato o su una strada privata non aperta al pubblico. In caso di incidente su strada di campagna opera l’assicurazione? È questa la domanda che, di recente, è stata posta alla Cassazione dopo che, proprio di recente, le Sezioni Unite avevano affermato che più che la proprietà dell’area conta l’uso che viene fatto del veicolo: uso che, se conforme alla sua funzione, dà diritto al risarcimento da parte della compagnia con cui si è stipulata la polizza Rc-auto. Nel caso di specie, il problema si è posto per via di un incidente stradale avvenuto su un fondo agricolo nei pressi del greto del fiume e dunque non su una strada. Come noto, la legge stabilisce che «I veicoli a motore (…) non possono essere posti in circolazione su strade di uso pubblico o su aree a queste equiparate se non siano coperti dall’assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi». La giurisprudenza ha stabilito che la copertura assicurativa opera sia sulle strade pubbliche che su quelle private, purché il mezzo venga utilizzato secondo lo scopo che gli è proprio. Non avrebbe diritto al risarcimento, ad esempio, chi fa una gara di corse auto. La copertura opera anche in caso di circolazione su aree equiparate alle strade. Con tale termine si intende quella effettuata su ogni spazio (quindi non necessariamente su strada) ove il veicolo possa essere utilizzato in modo conforme alla sua funzione abituale proprio come nel caso, ad esempio, in cui un trattore circoli su un’area demaniale aperta al pubblico: è appunto l’ipotesi dell’incidente su strada di campagna su cui opera l’assicurazione. Proprio in ragione di ciò, la Cassazione, in passato, ha riconosciuto il risarcimento a carico dell’assicurazione per l’investimento di un minore avvenuto in un’area retrostante ad una casa e di pertinenza della stessa, recintata da un muro di confine e chiusa sulla estremità opposta da un alto cancello metallico, destinata alle manovre in entrata ed in uscita di automezzi privati e non destinata all’accesso di persone diverse dai proprietari della detta area. Ciò perché, come detto, non rileva se la strada sia pubblica o privata e, in quest’ultimo caso, inibita al traffico esterno: ciò che rileva è l’utilizzo dell’automezzo «in modo conforme alla sua funzione abituale». Tale è stato l’importante chiarimento delle Sezioni Unite fornite nel luglio 2021 sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Ue. Ecco la massima che si può ricavare da tale “storica” pronuncia: «L’assicurazione della responsabilità civile autoveicoli opera, e l’azione diretta verso l’assicuratore spetta, anche quando il sinistro ed il relativo danno occorrono da uso dell’auto in “zone private”. La nozione di circolazione su aree equiparate alle strade di uso pubblico deve intendersi come quella effettuata su ogni spazio ove il veicolo possa essere utilizzato in modo conforme alla sua funzione abituale». Ne deriva che, in caso di incidente, l’infortunato può presentare domanda di risarcimento direttamente all’assicurazione con cui ha stipulato la propria polizza sulla responsabilità civile l’automobilista (Rca obbligatoria ai sensi dell’articolo 193 del codice della strada). Nel caso deciso dalla Cassazione con l’ordinanza in commento, a subire il danno su una strada di campagna era stato un trattore. Il motivo di ricorso – ha precisato la Cassazione – pone la questione della equiparabilità a una strada pubblica dell’area demaniale in cui è avvenuto il sinistro e, più in generale, la questione della riconducibilità del sinistro nella fattispecie della circolazione stradale, ai fini dell’applicabilità della normativa sulla Rca. I Supremi giudici hanno accolto il ricorso del danneggiato ricordando il principio di diritto secondo cui «per circolazione su aree equiparate alle strade va intesa quella effettuata su ogni spazio ove il veicolo possa essere utilizzato in modo conforme alla sua funzione abituale». Ragion per cui anche un incidente su una strada campagnola può dare diritto all’indennizzo da parte della compagnia assicuratrice.
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Incidente stradale: come contestare i rilievi della Polizia?
Il rapporto degli agenti intervenuti sul posto non ha valore assoluto e può essere smentito da una Ctu che fornisce una ricostruzione alternativa del sinistro. Quando c’è un incidente stradale con morti e feriti, o con gravi danni ai veicoli coinvolti, le forze di Polizia intervengono sul posto per eseguire i rilievi e ricostruire la dinamica dell’accaduto. In questo modo, diventa possibile attribuire le rispettive responsabilità dei conducenti, e talvolta anche dei pedoni, nella verificazione del sinistro. In questi casi, si va ben oltre il classico Cid, il modulo di constatazione amichevole sottoscritto dai guidatori, perché il verbale è un atto pubblico; quindi, ha un valore di fede privilegiata. Significa che “pesa” parecchio, e assume un’importanza spesso decisiva ai fini del risarcimento dei danni da riconoscere a chi è dalla parte della ragione. Ci sono poi le ulteriori conseguenze, come la decurtazione dei punti sulla patente e l’aumento del premio assicurativo, per chi è in torto o ha un concorso di colpa maggiore dell’altro. Ma il documento redatto dai poliziotti o dai carabinieri non è oro colato, e può essere smentito da risultanze di segno diverso o addirittura contrario. In caso di incidente stradale, come contestare i rilievi della Polizia? Vediamo. Che valore probatorio hanno i rilievi della Polizia? Per cominciare, prendiamo un caso concreto. La Polizia rileva sull’asfalto delle tracce di frenata e da esse desume che il veicolo coinvolto nell’incidente abbia cercato di fermarsi in tempo per evitare lo scontro. Di conseguenza la sua responsabilità nel sinistro sarà minore. Ma l’investito non ci sta, avvia una causa civile e contesta questi risultati con una consulenza tecnica: il perito nominato dal giudice (Ctu, consulente tecnico d’ufficio) dimostra che i segni degli pneumatici appartengono a un altro veicolo e sono stati lasciati in precedenza su quel tratto di strada. Dunque, è una frenata vecchia e diversa, che non ha nulla a che fare con quell’incidente. Il caso esposto è reale ed stato deciso dalla Corte di Cassazione con una nuova ordinanza: così il rapporto della Polizia è stato smentito dalla Ctu, la consulenza tecnica d’ufficio, che era richiesta da una delle parti in causa ed è stata disposta appositamente per fare luce sulla vicenda. In sostanza il giudice, nella ricostruzione dell’incidente e nell’apprezzamento delle responsabilità, non è strettamente vincolato alle risultanze dei rilievi svolti dalle forze di Polizia nell’immediatezza e sul luogo del sinistro, ma può discostarsene in base a indagini tecniche più approfondite e che ritiene più affidabili. Quando il rapporto della Polizia può essere contestato? Il valore probatorio dei rapporti della Polizia è coperto, a norma dell’art. 2700 del Codice civile, dalla «fede privilegiata» tipica dell’atto pubblico, in base alla quale esso fa «piena prova», ma soltanto per gli elementi che sono caduti sotto la diretta percezione dei verbalizzanti, cioè di quanto essi hanno constatato, visto e sentito con i propri occhi e con le proprie orecchie: ad esempio, la posizione dei veicoli subito dopo il sinistro, i danni riportati, le persone presenti sul luogo e i loro comportamenti. Per contestare la veridicità di queste circostanze è necessario uno speciale procedimento, chiamato “querela di falso”, che in concreto non è facile svolgere. La fede privilegiata, invece, non si estende agli elementi ulteriori, come gli apprezzamenti, i ragionamenti, le deduzioni e i calcoli fatti dai poliziotti, anche quando queste circostanze sono state descritte, argomentate e riportate nel verbale. Non si tratta, infatti, di cose che il pubblico ufficiale attesta come avvenute in sua presenza. Certo, anche queste risultanze hanno un’attendibilità maggiore rispetto alla testimonianza di un comune cittadino che ha assistito all’incidente, ma possono essere contestate più agevolmente. E il modo migliore per farlo è l’espletamento di una consulenza tecnica, che può essere di parte o, meglio, d’ufficio, e in tal caso si chiama Ctu. Nelle cause relative ai sinistri stradali, questa operazione tecnica assume la forma di Ctu cinematica (detta anche “modale”). Ctu: a cosa serve e quando viene disposta? La responsabilità risarcitoria per i danni provocati a persone o cose dalla circolazione di un veicolo è regolata dall’art. 2054 del Codice civile, in base al quale si presume un concorso di colpa paritario dei conducenti coinvolti nel sinistro, a meno che uno di loro non dimostri che la colpa esclusiva, o almeno prevalente, è dell’altro, mentre egli ha fatto tutto il possibile per evitare l’incidente. Il rapporto della Polizia che descrive i rilievi e ricostruisce la responsabilità nella causazione dell’incidente può far propendere la colpa maggiore o totale su uno dei due conducenti, ma l’altro può contestare queste risultanze producendo altre prove (ad esempio, testimonianze di chi ha assistito all’accaduto, o i filmati delle telecamere presenti in zona) e chiedendo al giudice di disporre una Ctu cinematica, cioè una perizia per stabilire le modalità di verificazione e le cause del sinistro oggetto di indagine. Non è ammessa, invece, la Ctu «esplorativa», cioè quella richiesta per sopperire alle lacune probatorie delle parti che non hanno alcun elemento probatorio da offrire: occorre sempre uno spunto concreto per motivare la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio, svolta da un esperto incaricato dal giudice. Ctu: come si svolge e che valore ha? Se il giudice accoglie la richiesta di Ctu, si apre un procedimento in contraddittorio tra le parti in causa, che possono partecipare alle operazioni peritali (il Ctu deve comunicare data, orari e luogo di svolgimento delle sue attività), nominare propri consulenti di parte e depositare le proprie eventuali controdeduzioni sull’operato e sulle conclusioni del Ctu nominato dal giudice. Il consulente tecnico, infatti, pur avendo un compito molto ampio e qualificato, rimane un semplice ausiliario del giudice, al quale fornisce le informazioni tecniche necessarie a decidere la causa. Quindi, il Ctu non si sostituisce al giudice, perché la decisione finale compete sempre a quest’ultimo. Il giudice non è obbligato a disporre la Ctu e può anche rifiutare la consulenza tecnica d’ufficio richiestagli dalle parti, ma in questo caso deve motivare la sua decisione di rigetto, fornendo – come ha affermato la Cassazione – la «dimostrazione di poter risolvere, sulla base
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_assegno di mantenimento all’ex coniuge professionista
Quando è dovuto l’assegno di mantenimento all’ex coniuge professionista che ha uno studio e dei clienti. Per ottenere l’assegno divorzile, ciò che conta, oltre alla disparità di reddito tra i due ex coniugi, è anche l’oggettiva e incolpevole impossibilità, per quello più “povero”, di potersi mantenere da solo. Ma quando c’è una “potenzialità lavorativa”, ossia una capacità di produrre reddito, i giudici tendono a negare qualsiasi mantenimento. Ed allora la domanda torna (di nuovo) spontanea: l’ex moglie avvocato ha diritto agli alimenti? Ex moglie con abilitazione professionale: ha diritto al mantenimento? Secondo la Corte, l’agognata abilitazione all’esercizio della professione forense può rivelarsi un boomerang in caso di divorzio per la richiesta dell’assegno. E difatti, i giudici supremi hanno respinto il ricorso di una donna che, all’indomani della separazione con il marito, pretendeva da questi gli alimenti. Tuttavia, la domanda è stata rigettata poiché la donna «risultava da tempo abilitata alla professione forense ed iscritta al relativo Albo, oltre che alla Cassa previdenziale di pertinenza». La donna aveva conseguito l’abilitazione pochi mesi dopo la cessazione della convivenza. Per i giudici, se anche i dati acquisiti non fornivano un «quadro sufficiente a dimostrazione di quanti e quali redditi le derivassero da tale attività professionale, in ogni caso, la sua non avanzata età, in uno con l’assenza di fattori impeditivi del concreto ed operativo esercizio (mai peraltro allegata, dedotta e dimostrata dalla ricorrente/appellata), portavano ragionevolmente ad escludere la sussistenza di ragioni oggettive di ostacolo alla capacità della donna di procurarsi mezzi “adeguati” al proprio sostentamento». Quando l’ex moglie ha diritto al mantenimento Per comprendere il ragionamento dei giudici è necessario ripercorrere le linee guida che portano i tribunali a riconoscere all’ex moglie gli alimenti. Innanzitutto, è necessario che vi sia una disparità di redditi tra i due coniugi. Se questi infatti presentano una situazione economica pressoché equivalente, nessuno dei due dovrà mantenere l’altro. In secondo luogo, è necessario che il coniuge con il reddito più basso non sia in grado di mantenersi da solo. Se infatti, pur in presenza della suddetta disparità, il coniuge più svantaggiato dispone comunque di uno stipendio che gli consente l’indipendenza e l’autosufficienza (si pensi a un lavoro di insegnante), il mantenimento non è dovuto. In terzo luogo, è necessario che tale situazione di dipendenza economica dell’uno dall’altro non sia “colpevole”, non dipenda cioè da inerzia nella ricerca di opportunità lavorative. Ragion per cui il coniuge richiedente l’assegno dovrà dimostrare di non avere ciò che i giudici chiamano “potenzialità reddituale”. Deve quindi avere un’età avanzata, oppure una condizione di salute che gli impedisce di dedicarsi a un’occupazione, o di aver cercato un posto ma di non esserci riuscito. Ecco perché le donne giovani, con un titolo professionale e un “pacchetto clienti” seppur minimo non possono ambire all’assegno divorzile, avendo già tutto ciò che serve per rendersi autonome: formazione, abilitazione, studio, capacità reddituali. In presenza di tali requisiti, è possibile ottenere gli alimenti dall’ex. Ma anche qui non è possibile aspirare a grosse cifre: secondo la Cassazione, pur in presenza di un coniuge benestante, il richiedente avrà diritto solo ad un importo che gli consenta di condurre una vita decorosa, ma non anche pari a quella dell’ex. In buona sostanza, l’assegno di mantenimento non deve garantire il mantenimento dello stesso tenore di vita di cui si godeva in costanza di matrimonio. Ex moglie casalinga: ha diritto al mantenimento? Tutto ciò di cui abbiamo appena parlato incontra un’eccezione: quando risulta che l’ex moglie, d’accordo con il marito, ha rinunciato (in tutto o in parte) alla propria carriera per dedicarsi alla casa e alla famiglia (ad esempio badando ai figli), ha allora sempre diritto a un mantenimento proporzionato al reddito dell’ex (il quale si è potuto dedicare al lavoro, e quindi si è arricchito, proprio in ragione di tale sacrificio). Ex moglie avvocato o professionista: le spettano gli alimenti? Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto che non sussistessero i presupposti per chiedere l’assegno di divorzio, posta appunto la potenzialità reddituale dell’ex moglie avvocato. E lo stesso discorso può ovviamente essere fatto anche per qualsiasi altro tipo di professionista. Mentre, con riferimento al contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune”, l’apporto dell’ex al ménage domestico non poteva essere considerato “significativo”, sia per il fatto che ella «non ha prodotto reddito, essendosi dedicata agli studi universitari, sia per la breve durata del rapporto matrimoniale, pari ad appena tre anni, sia per la mancanza di figli e sia perché l’ex marito trascorreva fuori casa gran parte del tempo per via del lavoro». In definitiva, per la Cassazione, la donna «era libera di organizzare la giornata a proprio piacimento. Piuttosto era stato l’ex marito a consentire all’ex moglie di dedicarsi agli studi universitari durante la vita coniugale, attendendo costantemente al proprio lavoro per garantire un reddito alla famiglia, cosicché ella aveva potuto conseguire la laurea ed esercitare, conseguentemente, la professione legale, con acquisizione di una posizione reddituale superiore alla sua». Quando l’ex moglie professionista ha diritto al mantenimento Il fatto di essere una professionista, munita di titolo e di studio, non garantisce sempre di ottenere gli alimenti. Si pensi al caso in cui l’ex coniuge ha sì il titolo, ma non uno studio, né ha esercitato l’attività per molti anni a causa della scelta – condivisa con l’altro coniuge – di badare alla famiglia. Si pensi a una donna che è commercialista o avvocato ma ha preferito svolgere lavori saltuari e comunque senza alcun impegno, avendo piuttosto interesse a dedicarsi ai figli e alla casa. In una situazione del genere – ha sottolineato in passato la Cassazione – sussiste il diritto al mantenimento. Scatta dunque l’assegno divorzile per l’ex moglie professionista che non ha mai esercitato. Specie se non ha abbastanza soldi per aprire un suo studio professionale. Pesa quindi la storia matrimoniale: bisogna accertare il rapporto fra le scelte adottate dalla coppia – ad esempio, la decisione della donna di dedicarsi a crescere i figli – e
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Dove è partita la diffusione del virus nel nostro Paese e in Europa all’inizio del 2020.
Ci sono voluti due anni ma alla fine è stato possibile ricostruire il percorso che il virus del Covid ha fatto per arrivare in Italia e in Europa. Una ricostruzione appena pubblicata in tutto il mondo dalla rivista scientifica Nature, secondo la quale il Sars-CoV2 è filtrato dall’Oriente in Veneto e in Lombardia tra gennaio e febbraio 2020. A quei tempi, si legge sul rapporto di Nature proposto dal Corriere della Sera, il virus è arrivato in Italia in due forme diverse, il che significa che c’è stato un doppio tipo di contagio. Queste prime forme, giunte in contemporanea, sono state identificate come B in Veneto e come B.1 in Lombardia. La prima forma, cioè quella B, è rimasta circoscritta nell’area del Nordest fino ad estinguersi. Diverso, invece, il destino della B.1 che, dalla Lombardia, ha iniziato a dilagare in tutto il Paese. Si sostiene, in questo modo, che sia stato il focolaio lombardo a contagiare il resto dell’Italia, a cominciare da Veneto, Friuli, Emilia-Romagna, Marche, Lazio, Puglia e Abruzzo. Qui, il virus è mutato in B.1.1 e si è allargato altrove, da Nord a Sud (ancora Veneto e Lombardia le Regioni più castigate) fino a sbarcare in Sardegna. Non trascorre molto tempo prima di isolare l’ultima variante del virus partito dalla Lombardia, la B.1.1.1, rintracciata in Piemonte nei giorni in cui il Governo Conte chiudeva l’Italia in un duro lockdown durato un paio di mesi. La decisione di Palazzo Chigi facilitò l’isolamento della nuova variante ma, ormai, il danno era stato fatto. In Italia e, successivamente, in Europa. Secondo Nature, dunque, il coronavirus è partito dalla Cina, è arrivato nel Nord Italia e si è diffuso in Europa: sarebbe stato questo il percorso seguito dal Covid più di due anni fa. La rivista scientifica, infatti, sostiene che «l’Italia può essere considerata il primo e uno dei maggiori incubatori per la diffusione dell’epidemia in Europa e negli Stati Uniti e l’analisi dell’epidemiologia molecolare sin dalle prime fasi nel nostro Paese è di particolare interesse per svelare i primi passi evolutivi del virus al di fuori della Cina e i suoi adattamenti in Occidente». Su quali basi vengono fatte queste affermazioni? Il lavoro degli scienziati – riporta il Corriere – si è basato sui primissimi passaggi evolutivi del virus, definiti dai ricercatori «lignaggi ancestrali», e cioè forme genetiche che il Sars-CoV2 aveva all’inizio, nelle fasi più vicine alla sua «nascita». Visto che il coronavirus ha mediamente due mutazioni per mese, è possibile (per quanto complicato) andare a ritroso per tracciare una mappa geografica degli «spostamenti», ricostruendo le prime tracce che quel virus col genoma molto esteso e in continuo cambiamento ha lasciato in un certo momento storico e in un certo luogo.
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Appropriazione di file aziendali: cosa si rischia?
Licenziamento e responsabilità penale per il reato di appropriazione indebita in capo al dipendente che fa il backup dei file o che trasferisce i dati informatici dal computer aziendale a quello personale (anche tramite email). Non è infrequente che un dipendente faccia il backup dei dati salvati nel computer aziendale su cui ha lavorato per anni. E lo faccia, ovviamente, non certo per “ricordo” ma per avvalersene in una eventuale successiva attività “in proprio” o alle dipendenze di un concorrente. Ebbene, cosa si rischia per l’appropriazione di file aziendali? Di tanto si è occupata più volte la giurisprudenza. Ecco una sintesi delle principali pronunce che si sono occupate di questo spinoso argomento. Furto di documento e backup di file aziendali Secondo una recente sentenza della Cassazione è legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore che abbia sottratto documenti aziendali contenenti informazioni “sensibili” relative all’esercizio dell’attività d’impresa (‘know-how’). La regola in materia di licenziamento è quella secondo cui intanto si può risolvere il rapporto di lavoro in quanto il comportamento viene ritenuto così grave da ledere definitivamente il rapporto di fiducia che deve sussistere tra datore e dipendente. Tuttavia, nel caso di furto di documenti o appropriazione di file aziendali, ai fini della valutazione della gravità della condotta non ha rilievo alcuno la natura del materiale sottratto, ossia la circostanza che il lavoratore non abbia potuto trarre un’effettiva utilità dalla documentazione (si pensi a file ormai datati e privi di alcun valore commerciale). Infatti, secondo la Cassazione, basta accertare la provenienza aziendale del materiale sottratto: già tale comportamento, a prescindere dalle ripercussioni economiche per il datore e dalla utilizzabilità dei documenti, può definirsi sufficientemente grave per far perdere ogni rapporto di fiducia nel corretto operato del lavoratore. Né rileva – aggiunge la Corte – che i file “backuppati” o la documentazione sottratta sia di normale consultazione o che ne sia consentita l’asportazione al di fuori dei locali aziendali. Anche qui vale lo stesso ragionamento di prima: basta il semplice fatto di aver voluto utilizzare per scopi extra-lavorativi il materiale per configurare come grave il comportamento e quindi passibile di sanzione disciplinare. Ai fini dell’adozione del licenziamento rileva, quindi, la sola provenienza aziendale della documentazione. L’orientamento non è nuovo. Già in passato, la Cassazione aveva confermato il licenziamento di un lavoratore sorpreso mentre trasferiva su una pen-drive di sua proprietà un numero consistente di file informatici e dati appartenenti all’impresa. Anche in tal caso è stata riconosciuta la legittimità del licenziamento del lavoratore. In tale occasione, i giudici hanno rilevato che, per poter parlare di illecito disciplinare e applicare la relativa sanzione espulsiva, non rileva che: – i dati non siano stati divulgati a terzi: basta la semplice sottrazione; – i dati non siano protetti da password. Difatti la circostanza che al lavoratore sia consentito accedere alla documentazione non lo autorizza ad appropriarsene, «creando delle copie idonee a far uscire le informazioni al di fuori della sfera di controllo del datore di lavoro». Accesso abusivo a sistema informatico Passiamo dall’ambito civile a quello penale. Un reato spesso commesso in ambito aziendale è quello di accesso abusivo a sistema informatico. Si verifica tutte le volte in cui un dipendente acceda alla postazione di un collega per reperire dati a cui altrimenti, dal proprio computer, non avrebbe accesso. Stesso discorso nel caso in cui, tra i due colleghi, vi sia cooperazione, sicché l’uno invii all’altro i file o le informazioni in questione. L’accesso al sistema informatico della società non è uguale per tutti: alcuni infatti possono consultare tutte le informazioni di “base” della clientela (nomi, cognomi, indirizzo, tipologia di contratto, ecc.); altri invece hanno la possibilità di visualizzare ulteriori dati più riservati, anche sensibili come ad esempio il reddito dichiarato, eventuali rischi collegati alla persona e alla sua attività, trascorsi penali, ecc. Se un dipendente ha bisogno di analizzare alcune informazioni relative a un cliente e il suo computer non dispone delle autorizzazioni necessarie per visualizzare l’intera scheda, potrebbe chiedere a un collega di inoltrargli il file dalla sua postazione, invece abilitata a tale verifica. Quest’ultimo potrebbe, anche solo per mera cortesia, “girare” la mail con l’allegato. Tale condotta può costituire reato? Assolutamente sì. Lo hanno confermato anche le Sezioni Unite secondo cui integra il delitto di accesso abusivo a sistema informatico la condotta di «colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso». Sono «irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema». Lo stesso reato scatta nei confronti di chi, «pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita». Secondo i giudici della Cassazione, dunque, in base agli orientamenti delle Sezioni unite, deve ritenersi responsabile di accesso abusivo al sistema informatico anche colui che abbia fatto sorgere il proposito criminoso nel collega (autore materiale del reato), istigandolo all’invio delle email contenenti informazioni riservate cui egli non poteva accedere perché non abilitato dal datore di lavoro in ragione del fatto che la conoscenza di tali informazioni non era necessaria ai fini dello svolgimento dei suoi compiti. Appropriazione indebita Sempre secondo la Suprema Corte, si può parlare di responsabilità penale del lavoratore per il reato di appropriazione indebita nel caso in cui questi restituisca al datore di lavoro il computer aziendale formattato, dopo aver copiato i dati ivi contenuti su un dispositivo personale. Il reato di appropriazione indebita punisce con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 1.000,00 a 3.000,00 euro chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropri di una cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Ai fini dell’integrazione degli estremi del reato,
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Tribunale unico brevetti entro il 2022
Nel tribunale unico brevetti, i giudici verranno selezionati durante il periodo di applicazione provvisoria: alcuni saranno “togati”, con preparazione giuridica equivalente a quella dei giudici nazionali. Dovrebbe essere operativo entro la fine dell’anno in corso il Tribunale unificato dei brevetti dovrebbe cominciare ad operare entro la fine del 2022, al termine del periodo provvisorio. Il brevetto unitario sarà operativo solo dopo l’entrata in vigore dell’Accordo istitutivo del Tribunale unificato dei brevetti. Il tribunale servirà per la composizione delle controversie relative ai brevetti europei e ai brevetti europei con effetto unitario (ovvero i brevetti europei che vengono concessi sulla base di un’unica domanda e che tutelano un’invenzione in tutti i paesi in cui si applica l’accordo). Il brevetto unitario Lo scorso gennaio è iniziato il periodo di applicazione provvisoria dell’accordo istitutivo del Tribunale unificato dei brevetti che apre la strada al lancio del brevetto unitario. Il periodo transitorio ha durata di 7 anni. Potrà essere esteso per altri sette anni con decisione del comitato amministrativo. Durante questo periodo transitorio: – può ancora essere proposta dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali o ad altre autorità nazionali competenti un’azione per violazione o un’azione di revoca di un brevetto europeo (ma non di un brevetto europeo con effetto unitario); – può altresì essere proposta dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali o ad altre autorità nazionali competenti un’azione per violazione o un’azione di accertamento di nullità di un certificato protettivo complementare concesso per un prodotto protetto da un brevetto europeo; – il titolare o il richiedente di un brevetto europeo o il titolare di un certificato protettivo complementare hanno la possibilità di rinunciare alla competenza esclusiva del tribunale, notificando tale decisione alla cancelleria al più tardi un mese prima dello scadere del periodo transitorio. Adesso il Tribunale completerà le misure necessarie per garantire l’avvio operativo del nuovo sistema. Il brevetto unitario garantirà una protezione brevettuale semplice e conveniente in Ue, grazie all’introduzione di un’unica procedura di registrazione del brevetto e all’istituzione di un sistema unificato di risoluzione delle controversie. L’obiettivo è ridurre notevolmente i costi della protezione dei brevetti, a vantaggio delle imprese, in particolare delle Pmi, contribuendo ad incoraggiare gli investimenti in ricerca e sviluppo e facilitare il trasferimento di conoscenze nel mercato unico. Tribunale unificato brevetti, sedi e ambito di applicazione Il Tribunale unificato è una corte internazionale comune per gli Stati dell’unione aderenti al sistema, che comprende un tribunale di primo grado con sede centrale a Parigi e un distaccamento a Monaco di Baviera, una corte d’appello con sede in Lussemburgo e un Arbitration and Mediation Center con sedi a Lisbona e Lubiana. A Milano ci sarà la sede per l’Italia sede locale italiana. L’accordo su un tribunale unificato dei brevetti si applica: ai brevetti europei con effetto unitario; ai certificati protettivi complementari concessi per un prodotto protetto da un brevetto; ai brevetti europei che non sono ancora estinti alla data di entrata in vigore del presente accordo o che sono stati concessi dopo tale data; alle richieste di brevetto europeo pendenti alla data di entrata in vigore del presente accordo o inoltrate dopo tale data. Tribunale unificato brevetti, giudici e competenze I giudici saranno selezionati durante il periodo di applicazione provvisoria. Alcuni saranno “togati”, con preparazione giuridica equivalente a quella dei giudici nazionali, mentre altri saranno tecnici, esperti in diversi settori tecnologici, tutti con comprovata conoscenza del diritto civile e delle controversie in materia di brevetti. Il tribunale unificato dei brevetti avrà competenza esclusiva in relazione violazione o minaccia di violazione di brevetti e certificati protettivi complementari e relativi controricorsi, comprese le domande riconvenzionali relative a licenze; per misure provvisorie e cautelari e ingiunzioni; di revoca di brevetti; di accertamento di nullità dei certificati protettivi complementari.
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Riabilitazione penale: la guida
La riabilitazione penale è disciplinata agli articoli 178-181 c.p e consente a chi è stato condannato, di ripulire in parte la propria fedina penale perché estingue le pene accessorie e gli altri effetti penali della sentenza La riabilitazione penale è un istituto che permette, a chi è stato condannato, di dare una ripulita, anche non totale, alla sua fedina penale. Le norme di riferimento del nostro ordinamento per quanto riguarda la riabilitazione sono gli artt. 178- 181 del Codice penale. L’istituto ha una funzione premiale e promozionale nell’ottica della risocializzazione del reo, per questo uno dei presupposti che vengono richiesti per la concessione della riabilitazione è la buona condotta del richiedente per un certo periodo di tempo. La riabilitazione svolge un importante funzione di incentivo per il soggetto che ha subito una condanna, attraverso la creazione di un’abitudine al rispetto della legge e al vivere civile. Educazione che deve permanere anche dopo la concessione della riabilitazione, visto che se il soggetto commette un reato entro un determinato limite di tempo previsto dalla legge, la riabilitazione viene revocata. Riabilitazione penale: condizioni Le condizioni per ottenere la riabilitazione, così come ricavabili dalla formulazione dell’art. 179 del codice penale, sono le seguenti: – la decorrenza di un certo periodo di tempo; – la buona condotta, di cui dare prove effettive e costanti; – la non sottoposizione a misure di sicurezza; – il pagamento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, a meno che il soggetto non dia prova di trovarsi in una condizione di impossibilità ad adempierle. Quando si può chiedere la riabilitazione Il primo presupposto che il legislatore chiede per la concessione della riabilitazione è quindi il decorso di un determinato periodo di tempo. I riferimenti temporali per la riabilitazione sono indicati sempre nell’art. 179 c.p, il quale dispone che per dare corso alla riabilitazione devono essere decorsi: – almeno 3 anni dal giorno in cui la pena è stata comminata ovvero sia altresì estinta ed il condannato abbia mantenuto una buona condotta; – 8 anni se trattasi di recidivi ex articolo 99 del codice penale; – 10 anni per i delinquenti abituali, per tendenza ovvero professionali. Nel caso in cui la pena sia sospesa ai sensi dell’articolo 163 del codice penale, I, II e III comma, il termine decorre dalla sospensione. Estinzione e decorrenza dei termini Occorre chiarire che l’esecuzione della pena principale deve intendersi compiuta quando il condannato ha scontato la pena detentiva o quelle alternative o sostitutive, ha pagato completamente la pena pecuniaria o ha finito di pagare le sanzioni dovute. Nel caso in cui il soggetto sia stato sottoposto contemporaneamente alla pena pecuniaria e a quella detentiva si deve avere riguardo a entrambe perché costituiscono la pena principale. Cosa accade però se la pena si è estinta in un altro modo? – Se la pena si è estinta per prescrizione, il termine decorre da quando si compie il periodo contemplato agli articoli 172 e 172; – se l’estinzione si è realizzata per amnistia impropria o di indulto allora il termine decorre dalla data in cui entra in vigore il decreto che ha disposto le due misure. – Per quanto riguarda invece i recidivi il termine decorre quando la pena inflitta con l’ultima sentenza è stata espiata o estinta. La buona condotta La riabilitazione, che presuppone che la pena principale si già stata scontata o estinta, richiede soprattutto che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. Per buona condotta si intende la risocializzazione del condannato, termine che sta a indicare una condotta che risulti conforme al vivere civile. Il condannato in sostanza deve trovarsi un lavoro stabile, non deve riprendere a frequentare certi ambienti, deve in sintesi condurre uno stile di vita sobrio, onesto e corretto. Sono oggetto di valutazione a tal fine anche le eventuali denunce querele di cui successivamente il condannato sia colpito secondo un granitico orientamento della Cassazione (cfr, tra le altre Cass. n. 15471/2015 e n. 6528/2012) e addirittura fatti per i quali il soggetto, anche se non condannato, sono stati accertatati nella loro storicità e risolti ad esempio con l’oblazione. Non sottoposizione a misure di sicurezza o confisca L’art. 179 c.p è molto chiaro nel disporre inoltre che la riabilitazione non può essere concessa quando il condannato: – è stato sottoposto a una misura di sicurezza; – è stato sottoposto a confisca; e il provvedimento non è stato ancora revocato. Questo presupposto è particolarmente significativo e comprensibile ai fini dell’esclusione della riabilitazione. La mancata revoca del provvedimento che ha applicato la misura di sicurezza è sintomatico della persistente pericolosità del reo. Condizione che si pone in evidente contrasto con il requisito necessario della buona condotta. L’obbligazione civile Solo con l’adempimento dell’obbligazione civile si concretizza l’interesse del condannato nei confronti della persona offesa. L’assenza di interessamento, viceversa, implica il mancato processo di risocializzazione. Condizione ostativa alla riabilitazione è infatti l’inadempimento delle obbligazioni civili che derivano dal reato, quando manca la prova che il condannato si sia trovato nella impossibilità di adempierle. Prova che costituisce applicazione della manifestazione della buona condotta che il condannato/riabilitato deve fornire. Obbligazioni civili derivanti da reato (art. 185 c.p)che corrispondono con: – l’obbligo del risarcimento del danno – l’obbligo delle restituzioni – la pubblicazione della sentenza intesa come forma riparatoria del danno – la rifusione nei confronti dello Stato delle spese processuali. Attenzione, perché ai fini della riabilitazione, non è necessario che le obbligazioni civili siano frutto di una richiesta diretta della parte, attraverso la costituzione di parte civile in giudizio. Non occorre neppure che le abbia stabilite una sentenza civile o penale. Questo perché il presupposto dell’adempimento delle obbligazioni civili è richiesto direttamente dalla legge ai fini della riabilitazione penale. In sostanza, sempre nell’ottica del reinserimento e della risocializzazione del reo, ci si attende che l’iniziativa di offrire una riparazione del danno causato provenga proprio dal soggetto responsabile. Un’offerta riparatoria, che può essere anche equitativa e che abbia lo scopo di ristorare i soggetti che
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_In un processo quando è necessario ascoltare il minore?
In un processo quando è necessario ascoltare il minore? Vediamo cosa dice la legge e come si orienta la giurisprudenza Con la disgregazione del nucleo familiare sono sempre i figli minori i soggetti più coinvolti ed esposti al trauma della rottura della famiglia. La tutela dei loro interessi non è diretta, poiché non avendo una autonoma posizione processuale, l’attività difensiva viene delegata ai genitori (ovvero a chi legalmente ne ha la tutela o la curatela). In particolare, esistono dei procedimenti giudiziari, fra i quali quello per l’affidamento, in cui il diritto all’ascolto del minore riveste un ruolo primario poiché rappresenta l’unico mezzo attraverso cui il bambino può esprimersi. Per i motivi esposti, l’ascolto dei minori, istituto di fondamentale importanza, è stato regolamentano dall’ordinamento italiano sia dalla L. 219/2012 che dal D. Lgs. 154/2013. In particolare, l’art. 315 bis, comma III, cod. civ. riconosce il diritto del figlio minore, che ha compiuto i dodici anni (o anche di età inferiore se capace di discernimento) ad essere ascoltato nei processi in tutte le questioni che lo riguardano. Così come anche il testo dell’art. 336 bis, cod. civ. dispone che il minore sia ascoltato dal giudice nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo interessano, salvo il caso in cui l’ascolto sia in contrasto con il suo interesse o manifestamente superfluo. Cosa stabilisce la giurisprudenza? Oggigiorno, la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, è pacifica nel ritenere che l’audizione del minore non è un mezzo di prova bensì uno strumento di tutela del minore stesso. La Cassazione si è pronunciata più volte sull’argomento, affermando che l’ascolto “deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, e quindi con tutte le cautele e le modalità atte a evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti, ivi compresa la facoltà di vietare l’interlocuzione con i genitori e/o con i difensori, nonché di sentire il minore da solo”. Difatti, nella recentissima ordinanza n. 7262 del 4 marzo 2022, la Corte di Cassazione ha sancito che: “il mancato ascolto del minore infra-dodicenne circa il genitore col quale preferisce stare costituisce una violazione del contraddittorio”. Audizione del minore In conclusione, gli avvocati difensori devono insistere per ottenere dal giudice l’audizione del minore nei procedimenti che lo riguardano, poiché quello del minore ad essere ascoltato è un vero e proprio diritto, difatti, senza una adeguata causa di giustificazione, il mancato ascolto del minore costituisce una violazione del principio del contraddittorio.
Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Marito mantenuto e fannullone: niente assegno di divorzio
La differenza di condizioni economiche e patrimoniali tra coniugi non è sufficiente ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio, a rilevare è anche la durata del matrimonio e il contributo dato alla formazione e al ménage La differenza reddituale da sola non basta a giustificare il riconoscimento dell’assegno divorzile all’ex marito che risulta titolare di due pensioni. Lo stesso deve dimostrare di aver contribuito all’andamento famigliare e alla formazione del patrimonio, come richiesto dalla Su del 2018 in materia. Questo quanto emerge dalla Cassazione n. 11817/2022. La vicenda processuale La Corte di Appello rigetta in sede di reclamo la richiesta di un ex marito, già respinta in primo grado, finalizzata a ottenere l’assegno divorzile dalla ex moglie. Per la Corte entrambi gli ex coniugi sono autonomi economicamente in quanto la moglie è mantenuta dai due figli maggiorenni e il marito è titolare di due pensioni. Nessun mutamento poi è intervenuto nelle condizioni economiche degli ex coniuge tale da giustificare la concessione della misura. Assegno dovuto perché la moglie ha redditi superiori L’uomo però nel ricorrere in Cassazione: – con il primo motivo mette in dubbio la veridicità della condizione economica della ex moglie lamentando il mancato compimento di indagini tributarie; – con il secondo fa presente di aver subito un pignoramento per spese legali della moglie e che la stessa non ha rispettato gli accordi presi in sede di separazione e divorzio, occultando la propria situazione economica; – con il terzo lamenta difetto di motivazione sulle ragioni per le quali non sono state richieste dal Tribunale le ultime tre dichiarazioni dei redditi. La sperequazione economica non basta ai fini dell’assegno di divorzio La Cassazione, nel dichiarare il ricorso inammissibile, esamina congiuntamente i primi due motivi rilevando come la Corte di appello, dopo aver esaminato la documentazione, non sia giunta a ritenere inadeguati il redditi del richiedente. Lo stesso infatti è risultato titolare di due pensioni, inoltre le situazioni economiche dei coniugi non sono risultate sperequate. Lo stesso si limita ad invocare un occultamento della capacità economica della moglie in relazione agli immobili acquisiti dalla madre defunta, producendo alcuni documenti relativi al pignoramento subito, ma non indica però le ragioni per le quali gli stessi debbano risultare decisivi ai fini del riconoscimento dell’assegno. E’ onere della parte ricorrente indicare in quale atto del giudizio precedente ha già fatto cenno delle questioni prospettate, per consentire alla Cassazione di verificare la veridicità di tali affermazioni, prima di esaminare il merito. Il ricorso in ogni caso è carente sotto il profilo dei presupposti necessari per il riconoscimento dell’assegno. Nulla emerge sul contributo dato dal marito alla famiglia e al matrimonio né sulla durata dello stesso. La sproporzione reddituale non basta per riconoscere l’assegno, il richiedente deve aver dato un contributo alla famiglia, per fare valere questo diritto. Inammissibile infine per genericità e inconferenza anche il terzo motivo.