Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Risarcimento bene danneggiato: valore attuale o valore a nuovo?

Come si quantifica un risarcimento di un oggetto rotto: sulla base del prezzo necessario a riacquistarlo o per farlo riparare? Chi rompe paga. E su questo non ci piove. Ma “quanto” deve pagare? Qui le cose si fanno più difficili. Perché se ci sono danni che possono essere facilmente determinati, come ad esempio il costo della riparazione di un oggetto danneggiato, ce ne sono altri difficilmente quantificabili, come il dolore fisico o un’invalidità. Senza voler entrare, in questa sede, in una dissertazione sulle varie categorie del danno (che, come noto, può essere «patrimoniale», comprendendo il «danno emergente e il lucro cessante», oppure «non patrimoniale», comprendendo invece il danno morale, il danno biologico e quello esistenziale), concentriamoci piuttosto se, per calcolare il risarcimento del bene danneggiato, si tiene conto del valore attuale o del valore a nuovo. Cosa significa? Ipotizziamo il caso di una persona che, nel fare retromarcia, vada a sbattere contro un cancello elettrico privato, distruggendolo. Ripararlo risulta impossibile o comunque antieconomico. L’unica via percorribile è di comprarne uno nuovo. Qui il dubbio: il responsabile dovrà pagare il prezzo di acquisto per l’oggetto nuovo, magari anche di ultima generazione, oppure dovrà limitarsi a risarcire il valore (sicuramente ridotto per via dell’uso) che il bene aveva al momento del danneggiamento?  È chiaro che, in questa seconda ipotesi, potrebbe celarsi un’ingiustizia: ci sono oggetti assai vetusti che, seppur funzionanti e adeguati a svolgere la funzione a cui sono preposti, valgono molto poco. Si pensi a una vecchia auto che riesca a trasportare una famiglia, senza grandi pretese di performance; qualora dovesse andare distrutta in un incidente, il risarcimento pari al valore della stessa non sarebbe sufficiente a garantire al titolare la possibilità di comprarne una nuova. Sicché questi, nonostante il danno, resterebbe privo di un veicolo se non ha la possibilità di attingere a propri fondi. Insomma, il risarcimento del bene danneggiato si fa sulla base del valore attuale o del valore a nuovo? La questione trova esplicita regolamentazione nella legge. Ecco alcune risposte pratiche. Come si calcola il risarcimento di un oggetto? L’articolo 1908 del Codice civile stabilisce testualmente che «nell’accertare il danno non si può attribuire alle cose perite o danneggiate un valore superiore a quello che avevano al tempo del sinistro». Ne consegue che – salvo diverso accordo tra le parti – il danneggiante (o la sua assicurazione) non deve rimborsare il valore del bene alla data dell’acquisto (che potrebbe risalire a molto tempo prima), ma al valore che tiene conto della vetustà del prodotto. Alla somma così determinata dev’essere poi applicata la rivalutazione monetaria dalla data del sinistro fino alla data del pagamento da parte del danneggiante. Quindi, ai fini del calcolo del risarcimento, non conta né il prezzo da pagare per un oggetto nuovo, né quello che si era pagato al momento dell’acquisto dell’oggetto danneggiato, ma il valore di quest’ultimo al momento del danno. Quindi, tanto più si tratta di un oggetto vecchio e usurato, tanto minore sarà il risarcimento. Danno da incidente stradale: quale valore viene risarcito dall’assicurazione? Tale principio trova frequente applicazione pratica in tema di incidenti stradali. Come noto, non sempre le auto incidentate possono essere portate a nuovo. A volte, vanno rottamate. Anche qui dunque si pone la questione se rimborsare il prezzo necessario all’acquisto di un veicolo nuovo o il valore del bene danneggiato prima che divenisse un relitto. Ebbene, secondo la giurisprudenza, nell’accertare il danno non si può attribuire alle cose perite o danneggiate un valore superiore a quello che avevano al tempo del sinistro. Non si può fare riferimento neanche al valore dell’auto assicurata per come dichiarato nella polizza o in altri documenti con l’assicurazione. Dunque, non spetta alcun ulteriore risarcimento del danno per il maggior prezzo sborsato dal danneggiato per l’acquisto di una vettura nuova in seguito a incidente stradale, in quanto tale esborso è adeguatamente compensato dalle somme attribuite per interessi e rivalutazione e dal maggior valore d’uso del nuovo bene acquistato.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Mantenimento ex partner che non cerca lavoro

Se la ex moglie non cerca occupazione l’assegno può essere eliminato o ridotto, ma non se aveva sacrificato le sue aspettative per agevolare la carriera del marito. L’assegno di mantenimento non è, o non dovrebbe essere, una rendita parassitaria per continuare a vivere a carico dell’ex coniuge. Questo principio è stato affermato spesso dalla giurisprudenza, specialmente nelle pronunce più recenti; ma ogni volta bisogna ricorrere al giudice, mentre spesso il beneficiario dell’assegno è uno “scansafatiche”, che si culla sugli allori della cifra mensile percepita e non si dà da fare per trovare un’occupazione lavorativa. Così molti mariti, costretti a pagare praticamente vita natural durante, si chiedono: se la mia ex moglie non cerca lavoro, va mantenuta? Per prima cosa va tenuto presente che molte donne sono rimaste a casa per anni durante il matrimonio, dedicandosi alla famiglia ed alla crescita dei figli. Per loro è molto difficile ricollocarsi sul mercato del lavoro, specialmente se non sono più giovani. Qui, però, ci concentriamo soprattutto su coloro che potrebbero ottenere un impiego, ma non si adoperano in tal senso e restano inerti: nonostante i titoli di studio posseduti o le capacità professionali conseguite, non presentano curriculum, non partecipano a concorsi e selezioni, non formulano proposte di nessun tipo ad eventuali datori di lavoro che potrebbero assumerle. E intanto l’ex coniuge ogni mese continua a staccare l’assegno di mantenimento, nella misura inizialmente stabilita d’intesa tra le parti o dal giudice; che di solito è consistente, proprio in considerazione dello stato di disoccupazione del beneficiario, e, quindi, del suo bisogno economico. Sono proprio questi i casi in cui si pone in maniera forte la domanda: se l’ex moglie non cerca lavoro, va mantenuta? Vediamo. Quando bisogna mantenere l’ex moglie? Il marito deve mantenere l’ex moglie se e fino a quando c’è un rilevante divario economico tra i due ex coniugi. Questo squilibrio si misura in base alla disparità dei rispettivi redditi e patrimoni. Nella maggior parte dei casi, al momento della separazione o del divorzio, è il marito a percepire il reddito più alto, o l’unico reddito, se la moglie è casalinga. Allora, l’assegno di mantenimento viene attribuito per colmare questa sproporzione. Tuttavia, nella determinazione dell’ammontare spettante c’è una profonda differenza tra l’assegno di mantenimento, che sorge a seguito della separazione coniugale, e l’assegno divorzile. Il primo emolumento è una “misura tampone”, che serve a garantire al beneficiario lo stesso tenore di vita di cui godeva durante il matrimonio; invece l’assegno divorzile – che ha carattere più stabile, in quanto interviene dopo la cessazione definitiva del matrimonio – deve fornire un aiuto economico all’ex coniuge che non è in grado di mantenersi da sé, autonomamente, con le proprie fonti reddituali e patrimoniali. Ha, quindi, una funzione che la giurisprudenza, dal 2017 in poi, definisce «assistenziale, compensativa e perequativa». Quando il mantenimento non viene riconosciuto o cessa Il diritto a percepire l’assegno di mantenimento o divorzile sorge solo a favore dell’ex coniuge al quale la fine dell’unione coniugale non è stata addebitata (per condotte che hanno fatto crollare il rapporto, come l’infedeltà o la mancata assistenza): perciò, chi ha ricevuto la pronuncia giudiziale di addebito non può essere mantenuto. Inoltre, dopo il divorzio, per avere diritto all’assegno occorre che il beneficiario si trovi in condizioni di inferiorità economica rispetto all’ex coniuge, al punto di non potersi mantenere da solo (come abbiamo visto, dopo il divorzio non si segue più il criterio del precedente tenore di vita). Infine, l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa definitivamente se il beneficiario si risposa o avvia una nuova convivenza di fatto con un altro partner (purché sia stabile e non occasionale). Mantenimento ex moglie che non lavora: quando spetta? C’è, poi, un requisito essenziale per poter percepire l’assegno, oltre alla disparità di reddito: chi vanta il diritto al mantenimento deve dimostrare di essere incolpevole della propria non autosufficienza economica. La legge sul divorzio dispone che l’assegno di mantenimento spetta in favore dell’ex coniuge che «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive». Dunque, il richiedente mantenimento deve dimostrare la propria «meritevolezza», che si verifica quando, per motivi di età avanzata o di salute, non è più in condizioni di lavorare, o quando ha cercato, inutilmente, di trovare un’occupazione remunerata, ma non vi è riuscito. Un’altra situazione frequente è quella della donna che ha perso contatti e legami con il mondo del lavoro, specialmente se il matrimonio è stato di lunga durata e in questo periodo la moglie si è dedicata esclusivamente alle incombenze domestiche. In sintesi, per avere diritto all’assegno l’incapacità dell’ex coniuge di mantenersi autonomamente non deve dipendere da pigrizia, cattiva volontà o inerzia. Ex moglie che non cerca lavoro: ha diritto al mantenimento? Applicando “alla rovescia” i criteri che abbiamo esaminato, l’ex coniuge non ha diritto al mantenimento se è in giovane età, in buona salute ed in possesso di un titolo di studio o qualifiche professionali adeguate: queste caratteristiche agevolano l’inserimento lavorativo (tranne che in zone economicamente depresse o in periodi di crisi occupazionale). Così chi richiede l’assegno deve dimostrare di essersi attivato in modo concreto e volenteroso per cercare un lavoro. Se non vi è riuscito, nonostante gli sforzi, non sarà colpa sua, e avrà comunque diritto al mantenimento. Le più recenti pronunce della Corte di Cassazione ritengono che il mantenimento non spetta a chi, pur potendolo fare, non si è messo alla ricerca di un impiego. L’ultima ordinanza emessa dalla Suprema Corte ha aggiunto un importante tassello: l’ex moglie che non si è attivata per cercare un lavoro ha comunque diritto al mantenimento, dopo il divorzio, se durante il matrimonio si era occupata della famiglia e della crescita dei figli, così sacrificando le sue aspirazioni professionali. Tuttavia, nella vicenda esaminata dai giudici di piazza Cavour, l’assegno divorzile è stato tagliato in maniera consistente rispetto alla cifra iniziale, ed è sceso da 1.050 euro a 300 euro mensili. Questa decisione è stata presa in considerazione del fatto che la protratta «inerzia» dell’ex moglie nella ricerca di un lavoro aveva compromesso la «finalità

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Le modalità per incassare l’importo della polizza.

Chi lo può fare e quali documenti servono. Si può riscattare in anticipo? Il beneficiario di una polizza vita è la persona che, allo scadere del contratto o al manifestarsi dell’evento indicato, riceve quanto è stato pattuito tra il contraente (colui che attiva la polizza e che paga i premi) e la compagnia. Ma, in termini pratici, che cosa deve fare? Come riscuotere l’assicurazione sulla vita? È fondamentale partire con questa premessa: non è detto che ad incassare sia la stessa persona che ha firmato il contratto di assicurazione e che ha pagato ad ogni scadenza la quota stabilita. Non bisogna dimenticare, infatti, che una polizza coinvolge quattro soggetti diversi sui quali non bisogna fare confusione, vale a dire:   – il contraente, che, come detto, è la persona che accende la polizza e che paga i relativi premi;   – l’assicurato, cioè il soggetto su cui si determina l’evento che dà diritto a riscuotere la polizza;   – il beneficiario, che è chi riscuote l’assicurazione;   – la compagnia assicurativa. Lasciando per un momento da parte la compagnia, il cui ruolo appare piuttosto evidente, gli altri tre soggetti possono essere la stessa persona, possono essere due individui diversi o, addirittura, tre. Lo capiamo meglio con questo esempio. Fabrizio stipula una polizza vita con la compagnia X e si impegna a versare i premi. Poiché il figlio Matteo fa il pilota di aereo, decide che, in caso di morte del figlio, la compagnia paghi il capitale alla vedova di Matteo, Giulia. Pertanto:   – Fabrizio sarà il contraente, perché stipula la polizza e versa i premi;   – Matteo sarà l’assicurato, perché l’evento che determina il pagamento è il suo decesso;   – la vedova di Matteo, Giulia, sarà la beneficiaria perché sarà lei a ricevere il capitale. Che cos’è la polizza vita? Si rende necessario, al fine di capire il ruolo del beneficiario e come può riscuotere l’assicurazione sulla vita, spiegare brevemente di che cosa stiamo parlando, cioè che cos’è questo tipo di polizza. Un’assicurazione vita è un contratto che consente di ottenere un beneficio economico in cambio del pagamento di un premio (cioè della quota che deve versare il contraente ad ogni scadenza prestabilita) al verificarsi di un evento relativo alla vita dell’assicurato. Esistono tre tipi di polizza vita:   – il caso vita: la compagnia paga al beneficiario il capitale stabilito o una rendita in caso di sopravvivenza dell’assicurato al momento indicato nel contratto;   – il caso morte, o polizza Tmc (Temporanea caso morte): la compagnia paga al beneficiario il capitale stabilito in caso di decesso dell’assicurato;   – la polizza mista: la compagnia versa al beneficiario una rendita o un capitale sia in caso di sopravvivenza dell’assicurato alla scadenza del contratto sia in caso di morte prima che la polizza giunga al termine. In quest’ultimo caso, i beneficiari hanno diritto a riscuotere il capitale o la rendita subito dopo l’evento. La nomina del beneficiario nell’assicurazione vita Dei tre tipi di assicurazione vita che abbiamo appena elencato, il più delicato è il caso morte, poiché si tratta dell’evento meno prevedibile: un infarto, un incidente stradale, una malattia con un decorso molto veloce possono causare un decesso inatteso. In questi casi, occorre che a monte, cioè al momento di stipulare il contratto, sia stato identificato il beneficiario della polizza in modo molto specifico, con tanto di nome, cognome, codice fiscale e quant’altro. In questo modo, il beneficiario non soltanto sarà il solo ad avere il diritto di incassare il capitale o la rendita ma potrà essere anche rintracciato ed avvertito per tempo dell’evento. In caso contrario, se il beneficiario o i beneficiari vengono indicati in maniera troppo generica, partirebbe una procedura di accertamenti sugli aventi diritto destinata a finire nei meandri della burocrazia. Da sottolineare la particolarità della polizza Temporanea caso morte: riguarda la possibilità che il decesso dell’assicurato possa avvenire entro un determinato periodo. L’esempio più classico è quello di chi accende un mutuo per l’acquisto di una casa e, per non lasciare la famiglia in difficoltà con il pagamento delle rate nel caso in cui morisse nel frattempo, decide di sottoscrivere un’assicurazione vita Temporanea caso morte che scade insieme all’ultima rata del mutuo. Come riscuotere l’assicurazione vita? L’assicurazione vita può essere riscossa sia alla scadenza della polizza sia, in certi casi e a determinate condizioni, in forma anticipata. In ogni caso, il beneficiario dovrà rivolgersi alla compagnia con cui è stato sottoscritto il contratto e presentare la seguente documentazione: – copia di un documento d’identità; – se l’assicurato è ancora in vita, certificato anagrafico che attesta tale circostanza; – domanda di liquidazione. Occorrerà indicare alla compagnia anche la modalità di pagamento (bonifico bancario, assegno circolare, ecc.). In caso di decesso del titolare della polizza, gli eredi dovranno consegnare alla compagnia la documentazione che riguarda le circostanze della morte, attraverso una dichiarazione sostitutiva di atto notorio rilasciata dal Comune di residenza ed il certificato di morte firmato dal medico. La polizza andrà a beneficio degli eredi o di chi è espressamente indicato nel contratto. Per quanto riguarda la possibilità di riscuotere anticipatamente l’assicurazione vita, la compagnia è tenuta – se il beneficiario lo richiede ed il contratto lo consente – a liquidare al beneficiario l’importo assicurato anche prima della scadenza. Bisogna, però, tenere conto delle clausole stipulate al momento della firma. Ad esempio, la polizza vita non può essere interrotta nei primi tre anni. Occorre, quindi, attendere almeno 36 mesi (e pagare i relativi premi) prima di riscuotere anticipatamente. Nel caso del «premio unico», invece, la somma potrà essere richiesta anche dopo un anno dalla stipula. La richiesta di liquidazione può essere presentata sia compilando un apposito modulo firmato dalla compagnia sia attraverso una domanda scritta dall’interessato in cui si riportano le proprie generalità e si specifica il motivo della richiesta. Vanno indicati anche gli estremi della polizza (data in cui è stata stipulata, numero di contratto, ecc.). È, infine, possibile riscuotere solo una parte del capitale accumulato negli anni, a meno che questa ipotesi sia

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Consulta: illegittime le norme che attribuiscono automaticamente il cognome del padre.

È discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre. Questa è la conclusione della Corte costituzionale, riunitasi oggi in camera di consiglio per esaminare le questioni di legittimità costituzionale sulle norme che regolano, nell’ordinamento italiano, l’attribuzione del cognome ai figli. In particolare, la Corte si è pronunciata sulla norma che non consente ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, impone il solo cognome del padre, anziché quello di entrambi i genitori. In attesa del deposito della sentenza, che avverrà nelle prossime settimane, l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte costituzionale fa sapere che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In virtù del principio di eguaglianza e dell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono avere l’opportunità di condividere la scelta sul suo cognome, elemento fondamentale dell’identità personale. Pertanto, la nuova regola prevede che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine concordato, a meno che essi decidano, sempre di comune intesa, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In assenza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico. Pertanto, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi. È compito del legislatore regolare tutti gli aspetti connessi alla decisione.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_La separazione dei coniugi: Separazione consensuale

La separazione consensuale, disciplinata dall’art. 158 c.c., è il procedimento che consente ai coniugi di separarsi di comune accordo stabilendo anche le condizioni economiche e l’affidamento dei figli, che possono essere comunque modificate   Cos’è la separazione consensuale disposizione dei coniugi che intendono separarsi di comune accordo e che hanno perciò stabilito insieme i diritti relativi al patrimonio, all’assegno di mantenimento per il coniuge più debole e i figli, all’affidamento della prole e all’assegnazione della casa coniugale. L’accordo, che coinvolge tutti gli aspetti, viene stipulato in privato con l’assistenza di uno o due avvocati (a seconda che i coniugi abbiano deciso di farsi assistere in maniera comune o meno), ma per divenire efficace deve essere omologato dal Tribunale con apposito provvedimento. Tra le forme di separazione dei coniugi che ancora oggi si svolgono all’interno delle aule di giustizia, la separazione consensuale è sicuramente quella privilegiata dall’ordinamento e preferibile rispetto a quella giudiziale non solo per l’immaginabile minore conflittualità che si viene normalmente ad instaurare fra le parti (peraltro con notevoli riflessi positivi anche in merito ai rapporti con gli eventuali figli), ma anche perché presenta forme procedurali decisamente più snelle e rapide. La Cassazione sulla separazione consensuale Ecco alcune delle più interessanti sentenze della Cassazione in materia di separazione consensuale: Cassazione n. 41232/2021 L’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale consensuale in omologa di accordo che non ne preveda la decorrenza, è dovuto, sia pure a condizione che l’omologa intervenga e non disponga diversamente, fin dal momento del deposito del ricorso per separazione e non solo dalla data di pronuncia dell’omologa. Cassazione n. 11486/2022 L’atto con il quale un coniuge, in esecuzione degli accordi intervenuti in sede di separazione consensuale, trasferisca all’altro il diritto di proprietà (ovvero costituisca diritti reali minori) su un immobile, esso si ritiene ugualmente suscettibile di azione revocatoria ordinaria, non trovando tale azione ostacolo né nell’avvenuta omologazione dell’accordo suddetto – cui resta estranea la funzione di tutela dei terzi creditori e che, comunque, lascia inalterata la natura negoziale della pattuizione -, né nella circostanza che l’atto sia stato posto in essere in funzione solutoria dell’obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole o di contribuzione al mantenimento dei figli. Cassazione n. 17908/2019 Le attribuzioni patrimoniali dall’uno all’altro coniuge concernenti beni mobili o immobili, in quanto attuate nello spirito degli accordi di sistemazione dei rapporti fra i coniugi in occasione dell’evento di separazione consensuale, sfuggono sia alle connotazioni classiche dell’atto di “donazione” vero e proprio, e dall’altro, a quello di un atto di vendita; tali attribuzioni svelano una loro “tipicità”, la quale, di volta in volta, può colorarsi dei tratti della obiettiva “onerosità”, ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all’art. 2901 c.c., in funzione della eventuale ricorrenza, nel concreto, dei connotati di una sistemazione “solutorio-compensativa” più ampia e complessiva, di tutta quella serie di possibili rapporti aventi significati (o eventualmente, solo riflessi) patrimoniali, i quali, essendo maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana convivenza matrimoniale, per lo più non si rendono perciò sempre – guardati con sguardo retrospettivo immediatamente riconoscibili come tali. Cassazione n. 6145/2018 La situazione di intollerabilità della convivenza può dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, e, pertanto, il Tribunale è tenuto a pronunciare la sentenza non definitiva di separazione (scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio) quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione, facendo ad essa seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni. Tale pronuncia non definitiva costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio; pertanto, deve reputarsi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 9, (nel testo sostituito della L. n. 74 del 1987, art. 8), sollevata in riferimento agli artt. 2, 29 e 111 Cost. Cassazione n. 16909/2015 La separazione consensuale è un negozio di diritto familiare il cui contenuto essenziale è rappresentato dal consenso reciproco a vivere separati, dall’affidamento dei figli e, ove ne ricorrano i presupposti, dall’assegno di mantenimento. Esso ha poi un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione e che è rappresentato da accordi patrimoniali autonomi conclusi dai coniugi in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Diritto all’oblio: cosa si intende

Diritto all’oblio: la cancellazione dei dati personali deve intendersi come la totale e definitiva eliminazione di ogni copia o riproduzione oppure nella anonimizzazione degli stessi, senza possibilità di re-identificazione   Cosa bisogna intendere per oblio Il fiume dell’Oblio, nella mitologia classica, il Lete, era uno dei fiumi del mondo dei morti, le cui acque cancellavano ogni ricordo in chi vi si immergeva. Oggi la parola “Oblio” viene accostata al Diritto a essere dimenticati o meglio al Diritto di un individuo a essere dimenticato dalla collettività e, in particolare, a non essere più menzionato in relazione a fatti che lo hanno riguardato in passato e che erano stati oggetto di cronaca dove il soggetto non era descritto o rappresentava eventi o fatti lusinghieri. Il diritto all’oblio, con varie declinazioni, tocca molteplici normative nazionali e sovranazionali: All’art. 2 della Costituzione che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo (il diritto all’immagine e alla reputazione), l’art. 3 che garantisce la “pari dignità sociale” di tutti i cittadini ed infine l’art. 21 della Costituzione che garantisce il diritto alla libertà di espressione del pensiero (compreso il diritto di cronaca) entro alcuni limiti; Nella Carta dei Diritto Fondamentali dell’Unione Europea all’art.7 “Rispetto della vita privata e della vita familiare” che recita: domicilio e delle sue comunicazioni> e all’art 8 “Protezione dei dati di carattere personale” della Carta, ove al co. 1 recita «Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano»; All’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo la quale dispone che ogni persona «ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza» e al conseguente art. 10 ove si specifica che la libertà di espressione può essere sottoposta a restrizioni necessarie «alla protezione della reputazione o dei diritti altrui» oppure «per impedire la divulgazione di informazioni riservate …». All’art. 16 del TFUE regolamenta la protezione delle persone fisiche sul trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione e di tutti gli Stati membri, nell’esercizio delle competenze che rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione; La Direttiva 95/46, che disciplinava il diritto alla cancellazione dei dati personali seme dal quale nasce l’attuale art. 17 del GDPR; La Direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, entrata in vigore il 5 maggio 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio, recepita in Italia nel maggio 2018, col Decreto Legislativo 18 maggio 2018, n. 51 regolamenta il trattamento dei dati da parte delle autorità di polizia e agevola la cooperazione transfrontaliera nella lotta contro la criminalità e il terrorismo; Il Regolamento (UE) 2016/679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, ove all’art. 17 GDPR rubricato <<Diritto alla cancellazione («diritto all’oblio»)>> che recita: <<L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali, se sussiste uno dei motivi seguenti:…>>”; Il diritto alla riservatezza tutelato dall’abrogato decreto legislativo n. 196 del 2003 Codice della privacy, oggi aggiornato dalla legge n. 160/2019, dal D.L. n. 53/2019, dal D.M. 15 marzo 2019 e dall’attuale decreto legislativo n. 101/2018 oggi in vigore; Le Linee Guida n. 5/2019 dell’European Data Protection Board che illustrano e chiariscono serie di criteri, in tutto sono 13, orientativi per le autorità garanti nazionali chiamate a gestire i reclami riguardanti richieste di deindicizzazione; Infine, ma non meno importante, l’art. 595 del codice penale “diffamazione”, che protegge la reputazione di ogni persona fisica. Il diritto all’oblio e il diritto alla cancellazione La cancellazione dei dati personali deve intendersi come la totale e definitiva eliminazione di ogni copia o riproduzione oppure nella anonimizzazione degli stessi, senza possibilità di re-identificazione. La Cassazione a Sez. Unite con sentenza n. 19681 del 2019 ha ricondotto “la deindicizzazione nel quadro di una classificazione che considera il medesimo come una delle tre possibili declinazioni del diritto all’oblio: le altre due sono individuate nel diritto a non vedere nuovamente pubblicate notizie relative a vicende in passato legittimamente diffuse, quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione e quello, connesso all’uso di internet e alla reperibilità delle notizie nella rete, consistente nell’esigenza di collocare la pubblicazione, avvenuta legittimamente molti anni prima, nel contesto attuale”. Il titolare del trattamento dei dati personali ha l’obbligo di procedere alla cancellazione automatica dei dati quando ne ricorrono le condizioni e indipendentemente dall’esercizio dell’interessato (Considerando 39), così come l’interessato, senza formalità predefinite (Considerando 59), ricorrendo alcune condizioni, può richiedere la cancellazione dei dati personali al titolare del trattamento. L’art. 17 co 3 del GDPR stabilisce che non si procede alla cancellazione, “nella misura in cui il trattamento sia necessario” elencando una serie di motivi apparentemente in conflitto con quanto riportato nei paragrafi precedenti, ad esempio se il trattamento sia necessario all’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione. Deindicizzazione dei link (o de-listing) dai motori di ricerca La deindicizzazione deve riguardare l’identità digitale dei soggetti interessati che si sentono disturbati o importunati dal riemergere di vecchie notizie fornendo una rappresentazione della loro identità personale ormai non più attinenti alla loro vita attuale. La digitalizzazione di tutti i grandi e piccoli fatti di cronaca riportati dal giornale locale o dal quotidiano a tiratura nazionale fa sì che la notizia circoli sulle pagine web delle testate per anni (con annesso archivio storico prima solo cartaceo e consultabile da pochi soggetti), rendono disponibili a tutti i fruitori del web l’accesso agli articoli pubblicati ipoteticamente per sempre. La indicizzazione automatica attuata dai motori di ricerca attraverso i loro algoritmi riesce a rendere le notizie fruibili attraverso una semplice ricerca inserendo il nome del soggetto interessato dall’utente “una query” (o keyword, parola chiave). 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Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Alla moglie anche il danno morale per le minacce del marito

Cassazione: alla moglie, vittima di aggressioni fisiche e verbali da parte del marito, non spetta solo il risarcimento del danno biologico derivante dalle lesioni ma anche il ristoro del danno morale causato dalle minacce.   Danno morale per minacce al coniuge Accolto il ricorso incidentale della moglie, rigettato invece quello del marito, con conseguente rinvio alla Corte di appello per determinare in favore della donna anche il risarcimento dei danni morali ed esistenziali che le sono stati riconosciuti in sede penale, ma negati in sede civile. Alla stessa, in via equitativa, è stato riconosciuto solo il danno biologico per le lesioni, ma sono state trascurate le sofferenze e quindi il risarcimento per danno morale e alla vita di relazione, conseguenti alle minacce le sono state rivolte dal marito. Questa la decisione della Cassazione, contenuta nell’ordinanza n. 12009/2022. La vicenda processuale In primo grado un marito viene condannato per i reati ascritti commessi nel 2014 in danno della moglie e condannato a due anni di reclusione e al risarcimento di 7000 euro. La Corte di Appello modifica la decisione perché non è stato soddisfatto il principio dell’oltre ragionevole dubbio. L’uomo viene quindi condannato a sei mesi di reclusione per i soli reati di minaccia e lesione e al pagamento del risarcimento disposto in primo grado. La Cassazione annulla la decisione in relazione alle statuizioni civili e rinvia al giudice di appello per la determinazione del risarcimento. A questo punto la Corte di appello, in sede di rinvio, determina il risarcimento del danno in favore della moglie in € 2.000,00 per l’assenza di una consulenza tecnica sulle condizioni fisiche della donna, ricorrendo per la quantificazione al criterio equitativo puro. Determinazione equitativa del solo danno biologico Contro la decisione ricorrono in via principale il marito e in via incidentale la moglie. Con il ricorso principale il marito lamenta l’erronea applicazione del criterio equitativo puro per la quantificazione dei danni perché a tale fine è necessaria la certezza sull’an e l’incertezza non superabile sul quantum. Presupposto quest’ultimo non sussistente visto che la moglie, pur avendone la possibilità, non ha offerto elementi finalizzati a determinare il preciso ammontare del danno. In questo caso quindi la quantificazione, in base al criterio equitativo, ha sopperito all’inerzia probatoria della danneggiata. Da parte sua, la moglie, con ricorso incidentale lamenta il solo risarcimento del danno biologico, trascurata infatti del tutto la richiesta risarcitoria relativa al danno morale e alla vita di relazione, che le erano stati riconosciuti in sede penale. Indubbia la sofferenza della moglie per le minacce La Cassazione adita, se da un lato respinge il ricorso principale del marito perché infondato, accoglie quello della moglie per le ragioni che seguono. Infondato il ricorso del marito perché il potere di liquidazione in via equitativa conferito al giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità, se nel motivare la decisione lo stesso indica il percorso logico e giuridico seguito. Sufficiente che la sua decisione abbia tenuto conto della situazione processuale nel suo complesso. Diverse invece le considerazioni e le conclusioni svolte in relazione al ricorso incidentale della moglie. In effetti, rilevano gli Ermellini, la Corte di Appello, nel quantificare il risarcimento di 2000 euro in favore della danneggiata, ha trascurato di riconoscere il ristoro anche del danno morale e alla vita di relazione che le sono stati causati dal marito e che le sono stati riconosciuti in sede penale. Indubbio infatti che le minacce e le offese rivolte alla donna nelle occasioni analizzate, abbiano provocato alla stessa “per elementare ragionamento logico, una sofferenza continua e di facile comprensione nell’arco temporale individuato, aldilà ed a prescindere dalla qualità delle relazioni e dei ruoli dei coniugi all’interno della stessa che non legittimava comunque l’uso della violenza.” Ha quindi errato la Corte di Appello nel riconoscere solo il danno da inabilità temporanea per i sette giorni di lesioni cagionate dal marito, che ha arrotondato da 1029,00 euro a 2000 per ristorare le sofferenze derivante dalla minacce, trascurando le voci ulteriori di danno morale alla vita di relazione.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Tradimento confessato su whatsapp: la chat conferma l’addebito

Le chat che rivelano l’infedeltà possono essere usate dal coniuge tradito per ottenere l’addebito della separazione. Bisogna stare attenti a quello che si dice, oltre a ciò che si fa: specialmente quando si chatta su WhatsApp o con altri sistemi di messaggistica. Ad esempio, di recente, un marito ha ottenuto l’addebito della separazione nei confronti della moglie fedifraga proprio grazie al contenuto dei messaggi trovati su WhatsApp; così non dovrà pagarle il mantenimento. Lo ha deciso il tribunale di Monza in una sentenza. Insomma, servono cautele, non solo quando si chatta con l’amante ma anche quando si parla con il proprio coniuge. In quella vicenda, la donna si era “autodenunciata”, ammettendo l’infedeltà in un dialogo su WhatsApp con il marito che l’aveva messa alle strette. E l’uomo aveva conservato le conversazioni, per utilizzarle contro di lei nel giudizio di separazione coniugale che aveva deciso di instaurare, visto l’adulterio conclamato e confessato dalla protagonista. È noto che il tradimento costituisce motivo di addebito della separazione, quando ha determinato la rottura irrimediabile dell’unione coniugale. Ma allora il tradimento confessato su WhatsApp è prova contro il coniuge anche in una causa di separazione? Secondo i giudici monzesi sì, e sono parecchie le pronunce giurisprudenziali che la pensano in questo modo. Il fatto è che ormai i messaggi scambiati su WhatsApp sono assimilati, quanto a valore probatorio, ai tradizionali documenti cartacei, e così per la legge essi formano «piena prova» dei fatti rappresentati, a meno che la controparte non li contesti espressamente, ad esempio sostenendo che sono stati falsificati. Ma procediamo con ordine e vediamo quando, come e perché il tradimento confessato su WhatsApp è prova e a quali condizioni viene riconosciuta la sua validità nei processi. Ti diremo anche cosa può fare il coniuge contro cui le chat vengono prodotte, per fare in modo che perdano la loro validità probatoria. Valore probatorio delle chat su WhatsApp L’art. 2712 del Codice civile dispone che «le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime». La norma è stata scritta nel 1942, in un’epoca in cui WhatsApp, la telefonia mobile, Internet e i social network non esistevano ancora. Il riferimento alle riproduzioni informatiche è stato inserito nel 2005, e la giurisprudenza più recente lo ritiene applicabile anche alle chat su WhatsApp. WhatsApp può provare l’infedeltà coniugale? Così la prima risposta al nostro quesito è affermativa: le chat su WhatsApp provano l’infedeltà coniugale, con tutte le conseguenze in termini di addebito della separazione al coniuge fedifrago. Infatti di regola l’addebito della separazione coniugale viene pronunciato nei confronti di chi si è reso responsabile dell’infedeltà nei confronti del coniuge, a condizione che da ciò – e non da altri fattori di crisi preesistenti – sia derivata l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza. La rottura tra i coniugi, infatti, potrebbe essere insorta per altri motivi indipendenti dal tradimento, che in tal caso diventa una conseguenza e non la causa del fallimento dell’unione della coppia. Come si usano le chat di WhatsApp nella causa di separazione È abbastanza facile, per il coniuge che si accorge di essere stato tradito, veicolare nella causa di separazione le chat di WhatsApp che dimostrano l’infedeltà del coniuge e farle valere come prova: basta produrle in giudizio, con gli screenshot o mediante l’estrapolazione del contenuto dell’archivio informatico su un supporto esterno, o con la trascrizione delle conversazioni; il tutto in base alla norma civilistica sulle «riproduzioni» che abbiamo esposto nel paragrafo precedente. A quel punto la palla passa all’altro coniuge, che può neutralizzare l’efficacia probatoria di questi documenti contestandoli e disconoscendone il contenuto. Attenzione però: la contestazione della veridicità del contenuto delle chat su WhatsApp deve essere precisa, specifica e argomentata. A livello processuale, secondo la Cassazione (in una pronuncia riferita agli Sms, ma estensibile anche a WhatsApp) il disconoscimento di conformità «non ha gli stessi effetti previsti per la scrittura privata dall’articolo 215, secondo comma, Cod. proc. civ.», poiché in quel caso «in mancanza di verificazione e di esito positivo della stessa, la scrittura non può essere utilizzata», mentre per le riproduzioni informatiche «il giudice può accertare la rispondenza all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni». Quando le chat su WhatsApp non possono essere disconosciute Per le chat riportate su WhatsApp o su altri sistemi di messaggistica le maglie sono molto più larghe rispetto ai documenti tradizionali e la loro utilizzabilità processuale risulta più ampia perché non è facile contestarle. Nella vicenda decisa dai giudici di Monza a cui abbiamo accennato all’inizio, il disconoscimento delle chat di WhatsApp da parte della moglie – e dalle quali risultava l’ammissione del tradimento compiuto – è stato respinto, perché la donna si era limitata a dire che non disponeva più del telefono cellulare che utilizzava all’epoca e, dunque, non era in grado di riscontrare la veridicità delle conversazioni che il marito aveva estrapolato e prodotto contro di lei. In sostanza, la donna si era limitata a sollevare dei dubbi sul contenuto delle chat riportate dal marito, ma non le aveva disconosciute in modo espresso. La Corte di Cassazione a tal proposito ha affermato che il disconoscimento delle chat su WhatsApp o altri sistemi di messaggistica (come gli Sms) «deve essere non solo tempestivo, ma anche chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e la realtà riprodotta».

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Amicizia su Facebook: può causare l’esclusione da un concorso?

Amicizia virtuale su un social network tra candidati e commissari: c’è incompatibilità per le selezioni di un bando di gara? Non è improbabile avere, tra le amicizie di Facebook, una persona che, dotata di una qualifica pubblica, possa un giorno decidere sulle altrui sorti. Il caso più eclatante è quello del contatto tra un candidato a una gara e il commissario chiamato a valutare la prova di quest’ultimo. La giurisprudenza si è più volte chiesta se l’amicizia su Facebook può causare l’esclusione da un concorso: se cioè possa essere causa di incompatibilità ed esclusione dal bando.  I precedenti giurisprudenziali sul tema sono già numerosi, a dimostrazione di quanto la questione pesi sotto un profilo di imparzialità e indipendenza del commissario giudicatore. Vediamo alcune delle sentenze principali che sono state emesse sino ad oggi. Cosa si intende con commensalità abituale  Molti bandi di concorsi vietano la valutazione del candidato da parte di un commissario con cui vi siano rapporti di «commensalità abituale». Lo stesso dicasi per quanto riguarda i rapporti tra il giudice e una delle parti: la commensalità abituale è causa di ricusazione del magistrato. Ma cosa si intende con questa espressione? Alla lettera, sono commensali coloro che vanno a mangiare insieme. Questa dizione è presente solo nell’ordinamento italiano, a dimostrazione di come, nel nostro Paese, i migliori affari e le più profonde amicizie si stringano proprio a tavola. Ma col tempo la giurisprudenza ha allargato il concetto aprendolo anche a tutte quelle forme di contatti quotidiani che, anche se non caratterizzati da profonda amicizia, potrebbero determinare un’influenza nel giudizio.  Ad esempio, la commensalità abituale è stata rinvenuta in uno stretto rapporto lavorativo, quando questi comporti una compenetrazione delle rispettive attività professionali dal punto di vista tecnico-organizzativo, in misura tale da potersi assimilare alla confidenza e alla reciproca fiducia che connotano i rapporti tra conviventi o tra commensali abituali.  Non si può comunque ricomprendere nell’ambito dell’obbligo di astensione per commensalità abituale ogni situazione che possa indurre a ravvisare anche il semplice sospetto di apparente parzialità. L’amicizia su Facebook si può considerare “commensalità abituale”? È noto che, sui social network, si accettano richieste di amicizia anche da parte di sconosciuti, spesso interessati al semplice dibattito o a conoscere, silenziosamente, i post, le discussioni, gli aggiornamenti o anche le semplici foto di un altro contatto. Così, due persone possono essere “amiche” su Facebook senza aver mai dialogato tra loro.  Dunque, il fatto che due soggetti si seguano a vicenda su un social o abbiano appunto un’amicizia su Facebook non implica la commensalità abituale, non almeno in assenza di altre e più fondate prove.  Amicizia su Facebook: può causare l’esclusione da un concorso? Poniamo ora il caso di un candidato in un concorso pubblico che, alla prova orale, venga esaminato da una persona con cui condivide il contatto su Facebook. Può questo elemento portare alla sua esclusione dalla gara e quindi dall’aggiudicazione di un posto pubblico? La risposta fornita dal Consiglio di Stato è stata negativa. L’amicizia su Fb tra esaminatore e candidato non è causa di incompatibilità, salvo ulteriori elementi che possano far ravvisare tra i due un rapporto di confidenza e profonda amicizia. Bisognerà quindi indagare sulle immagini pubblicate sul profilo per verificare se i due sono legati da rapporti più intimi di quelli tra due semplici conoscenti. Dello stesso parere è stato il Tar Genova secondo cui, al pari dell’eventuale conoscenza personale e l’occasionale frequentazione, l’amicizia sul social network Facebook tra componenti della commissione esaminatrice di un concorso e i candidati che vi partecipano non costituisce causa di incompatibilità atta a determinare l’obbligo di astensione dei primi. Foto insieme su Facebook: c’è incompatibilità in un concorso? Secondo la sentenza in commento, il fatto che due persone siano “amiche” su Facebook e abbiano pubblicato sullo stesso social delle fotografie che le ritraggono insieme non costituisce prova di una commensalità abituale.  Il Consiglio di Stato si è pronunciato a seguito del ricorso proposto da una delle parti contro una pronuncia del Tar Sardegna. In tale occasione era stato affermato il seguente principio: «L’amicizia su Facebook tra candidati e commissari non invalida il concorso in quanto non è inquadrabile tra le cause di incompatibilità dei componenti della commissione di concorso. Nei pubblici concorsi, infatti, i commissari hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’articolo 51 del codice di procedura civile» ossia per le stesse cause di astensione del giudice. E ciò succede quando il commissario:   – può vantare un interesse personale;   – se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori;   – se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori;   – se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico;   – se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; se, inoltre, è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa. Tale elenco non può essere interpretato in modo estensivo ad altre situazioni non espressamente previste dalla legge.  Per i giudici amministrativi, il fatto di aver pubblicato delle foto insieme al commissario non prova alcun rapporto di amicizia (o meglio “commensalità”) tra questi e il candidato, poiché le cosiddette amicizie su Facebook non rientrano nella casistica e sono del tutto irrilevanti in quanto lo stesso funzionamento del social network consente di entrare in contatto con persone che nella vita quotidiana sono del tutto sconosciute.  I giudici del Consiglio di Stato hanno richiamato la delibera 40/201 del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il cui

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Intestarsi l’utenza dell’elettricità equivale ad accettare l’eredità?

Il cambio d’intestatario sulla bolletta di un’utenza ancora attiva rappresenta una forma di accettazione da parte del chiamato all’eredità? Alla morte di una persona succedono i suoi eredi, i quali diventano titolari del patrimonio che fu del defunto quando era in vita. Ad esempio, se muore un uomo che lascia moglie e figli, questi diverranno proprietari di tutto ciò che era della persona scomparsa. Con il testamento è possibile lasciare parte del proprio patrimonio anche ad altri soggetti diversi dagli eredi “naturali”, cioè da coloro che succedono per legge. Si pensi all’uomo che vuole lasciare una parte dell’eredità a una Onlus o a un ente che si occupa di beneficenza. Con questo articolo ci occuperemo di un aspetto particolare: vedremo qual è il rapporto tra voltura delle utenze e accettazione tacita dell’eredità. Devi sapere che la legge non impone all’erede di diventare tale. In altre parole, la persona chiamata a succedere ben potrebbe rifiutare l’eredità, preferendo non averci nulla a che fare. Ciò in genere accade quando il defunto lascia solamente debiti. Per diventare dunque eredi occorre accettare l’eredità. L’accettazione può essere di due tipi: espressa o tacita. È proprio qui che entra in gioco il problema della voltura delle utenze e dell’accettazione tacita dell’eredità. Intestarsi l’utenza dell’elettricità equivale ad accettare l’eredità? Scopriamolo insieme. Accettazione eredità: cos’è? Come anticipato in premessa, all’apertura della successione (cioè, alla morte della persona il cui patrimonio verrà trasmesso) gli eredi non subentrano automaticamente nell’eredità: perché ciò accada, è necessario che essi accettino la stessa, in modo tacito oppure espresso. L’accettazione dell’eredità costituisce quindi l’atto con cui una persona, chiamata a succedere ad un’altra a causa della morte di quest’ultima, decide di assumere la condizione di erede, con tutti gli effetti che ne conseguono, in primis quello della confusione del proprio patrimonio con quello della persona defunta. Se l’accettazione non è immediata, si verifica una condizione particolare dell’eredità: si dice, infatti, che essa diventa giacente. Accettazione eredità: come funziona? Alla morte di una persona (giuridicamente, il soggetto della cui eredità si parla viene denominato “de cuius”), affinché coloro che sono stati indicati nel testamento ovvero, in assenza, i familiari più stretti (cosiddetti legittimari) possano divenire eredi, devono accettare la quota loro spettante. L’accettazione può essere espressa o tacita:   – l’accettazione espressa risulta da atto scritto nel quale emerge chiaramente la volontà di far propria una parte dell’asse ereditario. È il caso dell’erede che accetta l’eredità firmando una scrittura privata;   – l’accettazione tacita si realizza in un comportamento che inequivocabilmente manifesta l’intenzione di divenire erede a tutti gli effetti. Quando c’è accettazione tacita dell’eredità? L’accettazione tacita consiste:   – in una condotta che dimostra chiaramente la volontà di una persona di diventare erede, cioè di fare propria la quota d’eredità che gli spetta;   – in una serie di atti incompatibili con la volontà di rinunciare all’eredità. Ad esempio, la giurisprudenza ha individuato un’accettazione tacita dell’eredità nel conferimento di una procura a vendere beni ereditari, nella domanda di divisione dell’eredità o nella riscossione di un assegno intestato al defunto. Per giurisprudenza pacifica, anche la voltura catastale di un immobile caduto in successione costituisce manifestazione implicita della volontà di diventare erede. Non rappresenta accettazione tacita dell’eredità, invece, la presentazione della denuncia di successione, che è atto meramente fiscale. Volture utenze: è accettazione tacita dell’eredità? La voltura delle utenze rappresenta una forma di accettazione tacita dell’eredità? Ad esempio, se il figlio di una persona appena defunta comunica il decesso del titolare della fornitura di energia elettrica, mettendosi al suo posto, compie un atto di accettazione tacita dell’eredità? Dipende dalle circostanze:   – se la voltura delle utenze è fatta dall’erede che è già entrato stabilmente nel possesso dell’immobile, allora l’accettazione tacita è di fatto avvenuta nel momento in cui l’erede ha deciso di fare suo il bene e di comportarsi come proprietario;   – se la voltura delle utenze è fatta dall’erede solamente per una mera correttezza nei confronti della società, ad esempio per evitare l’interruzione della fornitura, allora non rappresenta una forma di accettazione tacita. La voltura di un contratto di fornitura di energia, acqua o gas per il decesso dell’intestatario consiste semplicemente nella variazione della titolarità di un contratto da un cliente ad un altro con il medesimo fornitore. Tale semplice operazione, in linea di massima, non è sufficiente a determinare l’accettazione tacita di eredità. Peraltro, secondo la Cassazione, il semplice possesso dei beni ereditari non sarebbe di per sé sufficiente a integrare un’accettazione tacita dell’eredità, se detto possesso dipende esclusivamente da un intento conservativo. Ad esempio, se il figlio di una persona defunta decide di fare la voltura delle utenze e di entrare nella casa lasciata dal padre solo per curare alcuni interventi di manutenzione, questa condotta non rappresenta una forma di accettazione tacita dell’eredità, in quanto il fine del possesso non è quello di averlo per sé come se ne fosse il proprietario, bensì solamente quello di non disperderne il valore. In sintesi: la semplice voltura delle utenze non rappresenta una forma di accettazione tacita dell’eredità, a meno che non sia accompagnata da altre condotte che manifestano inequivocabilmente la volontà di far propria la quota ereditaria.