Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Cessazione mantenimento e diritto di abitazione

Sia la raggiunta indipendenza economica che lo stato di disoccupazione incolpevole dovuto a inerzia determinano la cessazione del mantenimento e del diritto di abitazione.  È a tutti noto che, in caso di separazione di una coppia (sposata o di fatto), il giudice accorda il diritto di abitazione nell’ex casa coniugale al genitore con cui il figlio va abitualmente a vivere, anche se l’immobile è di proprietà esclusiva dell’altro. Statisticamente, nella gran parte dei casi, è la madre a tenere sia il figlio che la casa. A questo punto, è normale chiedersi: fino a quanto dura tale diritto? Nel momento in cui il figlio perde il mantenimento la madre deve lasciare casa? La risposta è stata fornita più volte dalla giurisprudenza. Il giudice assegna sempre la casa all’ex moglie? Non perché una coppia si separa, la casa finisce sempre all’ex moglie. Due sono le condizioni affinché ciò avvenga. Innanzitutto, la coppia deve avere un figlio che deve essere ancora minorenne o, se maggiorenne, non ancora autosufficiente dal punto di vista economico. In secondo luogo, la madre deve essere designata dal giudice come il genitore “collocatario”, quello cioè con cui il figlio andrà a vivere e quindi a risiedere. In pratica, la casa segue il figlio: il genitore che ottiene la collocazione del figlio può rimanere nella casa coniugale. Se non mi sposo, la casa va alla mia ex col figlio? Spesso, la gente crede di poter mettere al riparo la casa non sposandosi. Tuttavia, la regola dell’assegnazione della casa coniugale vale anche in presenza di una coppia di fatto. Se la mia ex ha una casa, le spetta la mia? Il giudice attribuisce al coniuge collocatario del figlio la casa coniugale, quella cioè dove prima la famiglia viveva. Quindi, se anche la madre è proprietaria di una propria abitazione (usata dalla famiglia come “seconda casa”), ciò non influirà sul suo diritto a continuare a restare nell’ex casa del marito o del compagno. Scopo infatti dell’assegnazione della casa coniugale è evitare che il figlio debba patire – oltre alla rottura dell’unione familiare – anche un trasferimento. Insomma, si vuol fare in modo che il bambino o il giovane continui a vivere nello stesso habitat domestico. Come non lasciare la casa all’ex moglie? Chi ha una casa di proprietà che non vuol lasciare all’ex, dovrà fare in modo che in essa non si svolga la vita familiare: dovrà cioè adibire a dimora abituale della famiglia un altro immobile. Perché solo su questo spetta il diritto di abitazione. Quando la moglie deve lasciare casa al marito? La moglie deve lasciare la casa se non ci va a vivere o se decide di trasferirsi altrove. È altresì tenuta a restituire l’immobile al marito se il figlio va a vivere da solo; il fatto che quest’ultimo frequenti l’università e faccia regolare ritorno a casa non è sufficiente per perdere il diritto di abitazione. Se il figlio perde il mantenimento la madre deve lasciare la casa? Poniamo ora il caso di un figlio che, nonostante l’acquisizione di un titolo di studio e un’età avanzata, non abbia ancora trovato un lavoro. Per la giurisprudenza questa è una tipica situazione in cui il ragazzo perde il diritto al mantenimento. Superati i 30 anni, al padre non è neanche richiesto dimostrare l’inerzia del figlio nella ricerca del lavoro: dopo una certa età, si presume lo stato di disoccupazione colpevole. Detto ciò, secondo una recente pronuncia del tribunale di Foggia, una volta che il figlio perde il diritto al mantenimento – sia perché raggiunge una sua stabilità economica, sia perché al contrario, nonostante l’età, non fa nulla per cercare lavoro – la madre deve lasciare la casa all’ex marito. E difatti non c’è più alcun habitat da tutelare per i figli. Al massimo, la donna potrà chiedere un aumento dell’assegno di mantenimento per se stessa anche perché dovrà cercarsi un altro alloggio. È chiaro allora che, insieme alla madre, anche il figlio dovrà andare via perché, cessando l’obbligo di mantenimento in capo ai genitori, questi perde anche il diritto di restare in casa loro.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Quando si può essere incriminati per atti osceni

Cosa si intende per atti osceni, per luogo pubblico e per luoghi abitualmente frequentati da minori. Gli atti osceni in luogo pubblico costituivano, un tempo, reato. Nel 2016, tale comportamento è stato depenalizzato. Oggi, pertanto, si viene punti con una sanzione amministrativa che va da 5.000 a 30.000 euro. Tuttavia, residuano ancora alcune ipotesi in cui tale comportamento continua a costituire illecito penale. E, poiché in proposito la legge è piuttosto generica, bisogna rifarsi alle indicazioni della Cassazione per comprendere, con maggiore precisione, quando gli atti osceni sono reato. Cosa sono gli atti osceni in luogo pubblico? La legge non dice cosa si debba intendere per «atti osceni». La giurisprudenza ha chiarito che non si tratta solo dell’atto sessuale in sé (si pensi alla coppietta) o dei preparativi all’atto stesso (toccamenti e simulazione, con esclusione dei soli baci), ma anche del toccamento lascivo di parti intime del proprio corpo, sia pure al di sopra dei vestiti. L’autoerotismo è quindi un atto osceno. Anche l’esibizione in pubblico degli organi genitali rientra negli atti osceni e, in generale, qualsiasi comportamento esibizionistico attinente alla sfera della sessualità (si pensi a una persona che guidi completamente nuda o al passeggero che sporga le natiche alle altre auto, sia pure in gesto di scherno). Più in generale, bisogna ricomprendere negli atti osceni, qualsiasi attività in grado di offendere il sentimento della morale sessuale e del pudore così da destare, in chi possa assistervi, disgusto e repulsione. A fronte di tale accezione molto ampia, c’è anche chi sostiene un’interpretazione più restrittiva, facendovi rientrare solo quell’attività che, di per se stessa, sia «gravemente lesiva» del pudore pubblico. Esempi di atti osceni A titolo di esempio, va ricordato che sono stati, in questi ultimi anni, ritenuti atti osceni e puniti come tali: il coito commesso in un giardino pubblico, la masturbazione commessa in una biblioteca pubblica; l’aver mostrato i genitali a una ragazza, standosene seduto in automobile ferma sulla pubblica via; l’aver toccato (sia pure al di sopra degli abiti) parti intime del corpo di una ragazza consenziente (se non fosse consenziente, si integrerebbe il reato di violenza sessuale). Vetri appannati: è reato di atti osceni?  Gli atti osceni sono stati esclusi invece nel caso di chi ha avuto rapporti carnali con una donna in un’autovettura i cui vetri erano appannati al punto tale da non permettere di vedere cosa stesse accadendo all’interno, oppure i cui vetri erano stati accuratamente coperti dall’interno con stoffa o giornali. Atti osceni: cosa si intende con “luogo pubblico”? Elemento essenziale per punire gli atti osceni è che essi avvengano in luogo pubblico. Gli atti osceni consumati in casa propria o in un luogo privato (ad esempio un circolo) non costituiscono illecito. È luogo pubblico quello continuamente libero e accessibile, di diritto o di fatto, a tutti o a un numero indeterminato di persone. Lo è ad esempio un vicolo cieco, un cunicolo di collegamento di due gallerie di autostrada, il ponticello sotto la ferrovia. Si rientra negli atti osceni anche nel caso in cui l’azione si consumi nell’auto parcheggiata in orario notturno in una strada secondaria o anche buia, in quanto tali circostanze non eliminano in modo assoluto l’eventualità che i comportamenti osceni possano essere percepiti da occasionali passanti. Bisognerebbe avere allora l’accortezza di oscurare i vetri con giornali. Il luogo è pubblico anche se completamente deserto, come un bosco. Conta la possibilità astratta che chiunque possa venire, per quanto remota sia tale possibilità. È stato altresì escluso che possa essere ritenuto un luogo pubblico un’aperta campagna di proprietà privata e lontana da strade e da case. Quando gli atti osceni sono reato? Gli atti osceni continuano ad essere reato quando sono consumati in luoghi abitualmente frequentati da minori o nelle immediate vicinanze. Secondo la Cassazione, vi sono due tipi di luoghi abitualmente frequentati da minori:   – quelli per vocazione strutturale;   – quelli per elezione specifica (ossia perché divenuti, convenzionalmente, luogo di ritrovo di minori). Nella prima categoria troviamo, ad esempio, la scuola, o il cortile di questa, una sala giochi, un campetto di calcio, i luoghi di formazione fisica e culturale, gli impianti sportivi, le ludoteche, i giardini muniti di giostre per i bambini, di scivoli e altalene. Secondo la giurisprudenza, invece, non è un luogo abitualmente frequentato da minori un parco pubblico dove non vi sono appositi spazi ricreativi per bambini. Nella seconda categoria troviamo invece quei luoghi che, di volta in volta, sono scelti dai minori come punto di abituale incontro o socializzazione ove si trattengono per un termine non breve. Gli esempi possono essere: un muretto sulla strada pubblica, il parcheggio di un centro commerciale, i piazzali adibiti a luogo ludico, il cortile condominiale, le strade e le piazze notoriamente luogo di incontro di adolescenti, quella parte dei giardini pubblici specificamente attrezzata per lo svago dei bambini e dei ragazzi più piccoli (ad esempio per la presenza di una pista di pattinaggio o un campetto di pallavolo, o con uno stagno e le anatre), ivi comprese le zone ad esse limitrofe. Cosa si intende per luogo abitualmente frequentato da minori Come abbiamo appena visto, gli atti osceni, normalmente illecito amministrativo, diventano reato solo quando compiuti in un luogo abitualmente frequentato da minori o nelle immediate vicinanze. Oltre a tutti gli esempi appena fatti nel paragrafo precedente, è bene ricordare che, secondo la Cassazione, per «luogo abitualmente frequentato da minori» non si intende un sito semplicemente aperto o esposto al pubblico dove si possa trovare un minore, bensì un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico. Il fatto che, in un vagone del treno o su una strada di città, possano potenzialmente trovarsi bambini non ne fa luoghi “abitualmente frequentati da minori”. Pertanto, in tali casi, non si verifica il reato ma si rientra nell’ambito dell’illecito amministrativo.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Assegno divorzile alla ex che dimostra le rinunce professionali

Cassazione: la differenza reddituale tra ex coniugi e la prova che la condizione reddituale deteriore della moglie è conseguenza delle rinunce ad occasioni lavorative migliori giustificano l’assegno divorzile Assegno di divorzio La ex moglie che lavora da anni, che percepisce uno stipendio assai inferiore rispetto alla pensione del marito e che in giudizio dimostra di aver rinunciato a occasioni di lavoro più redditizie per far fronte ai bisogni della famiglia, deve essere compensata per i sacrifici fatti. Queste le motivazioni che hanno portato la Cassazione, con l’ordinanza n. 12800/2022, ad accogliere il ricorso di una ex moglie a cui, in sede di appello, è stato negato l’assegno di divorzio. Negato assegno di divorzio alla ex moglie In sede di appello viene respinta l’impugnazione della ex contro la parte della sentenza di divorzio che le ha negato il riconoscimento dell’assegno di divorzio nella misura di almeno 400 euro. Per il giudicante, stante la natura composita dell’assegno divorzile, ossia compensativa, perequativa e assistenziale, tra i due coniugi non è presenta una disparità economica tale da giustificare l’assegno anche perché la moglie lavora e di fatto è economicamente autosufficiente. In ogni caso il divorzio attenua il vincolo di solidarietà familiare. Disparità e rinunce legittimano l’assegno La moglie ricorre in Cassazione contro la decisione della Corte sollevando due motivi di doglianza.   – Con il primo contesta della decisione della Corte di averle negato il riconoscimento dell’assegno basandosi solo sulla mancanza di differenza reddituale tra i coniugi.   – Con il secondo invece invoca la nullità della sentenza per non aver tenuto conto, nonostante le prove documentali, della effettiva differenza economica tra i coniugi, visto che il marito ha una pensione di 2300 euro (ed è titolare di un immobile), mentre la stessa ha uno stipendio di 1135,00 euro (e deve pagare il canone di locazione dell’immobile in cui vive) e che la stessa ha rinunciato per la famiglia a occasioni di lavoro più redditizie. Vanno compensate le rinunce professionali fatte per la famiglia La Cassazione accoglie il ricorso in quanto i motivi sollevati dalla ex moglie, trattati unitamente, sono fondati. Dopo avere richiamato i principi in materia di assegno divorzile della SU n. 18287/2018 la Cassazione evidenzia come la Corte d’appello, dopo avere richiamato la natura composita dell’assegno, abbia poi negato la misura sostenendo che con il divorzio il vincolo di solidarietà si attenui e che nel caso di specie, poiché non vi è una disparità reddituale l’assegno divorzile non spetti alla ex moglie. Al riguardo la Cassazione fa presente che nel caso di specie la Corte abbia in realtà trascurato il fatto che la donna si sia trovata in una situazione reddituale deteriore rispetto al marito, dimostrando con prove documentali la rinuncia della stessa a occasioni di lavoro migliori per contribuire ai bisogni della famiglia, con un sacrificio di tipo economico, che deve essere compensato. Occorre quindi riconoscere alla ex un assegno di divorzio tale da garantirle autosufficienza e indipendenza secondo un criterio di normalità, compensandola per il sacrificio e per le rinunce a occasioni professionali e reddituali fatte per la famiglia.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Carichi pendenti: risulta se sono indagato?

Istanza ex art. 335 c.p.p.: cos’è e a cosa serve? Cosa c’è scritto nel certificato dei carichi pendenti? Cosa si può fare quando si è indagati? In questo preciso istante potresti essere indagato dalla Procura e non saperne nulla. È possibile? Certo: la legge stabilisce che le attività investigative dell’autorità giudiziaria sono coperte dal massimo riserbo. Soltanto se bisogna compiere atti ai quali deve necessariamente assisterti un avvocato, verrai avvisato delle indagini in corso. Insomma: se qualcuno ti denuncia, non è tuo diritto esserne informato. Giunto a questo punto, ti starai chiedendo: come sapere se sono indagato? Se sono indagato risulta nei carichi pendenti? Per sapere se sei sotto indagine puoi fare una specifica istanza alla Procura della Repubblica; questa richiesta, però, non va confusa con i carichi pendenti, che sono un’altra cosa. Ma non voglio anticiparti troppo. Se l’argomento ti interessa e vuoi saperne di più, prosegui con la lettura, perché risponderemo insieme alla domanda posta nel titolo: se sono indagato risulta nei carichi pendenti? Vediamo. La polizia deve avvisarmi se sono stato denunciato? Come detto in apertura, nessuno deve avvertirti se sei stato denunciato: ciò accade perché le indagini delle autorità sono segrete. È però possibile che ti siano notificati alcuni atti che rappresentano un importante campanello di allarme: uno di questi è l’invito ad eleggere domicilio per le future comunicazioni. Quando invece la Procura deve compiere qualche atto investigativo per cui la legge prescrive la presenza necessaria dell’avvocato (l’interrogatorio, ad esempio), allora ti verrà notificato l’avviso di garanzia, in cui potrai leggere anche per quale reato sei indagato. Come sapere se sono indagato? Se non hai ricevuto alcun tipo di comunicazione da parte della polizia, per sapere se sei indagato devi fare un’istanza alla Procura della Repubblica, chiedendo espressamente di sapere se il tuo nominativo è iscritto all’interno del registro delle notizie di reato. Si tratta della ben nota “istanza ex art. 335 c.p.p.”, che puoi presentare anche personalmente senza l’ausilio di un avvocato. A seguito di questa richiesta, la Procura ti dirà se ci sono iscrizioni suscettibili di comunicazione, cioè se sei indagato o meno. Carichi pendenti: risulta se sono indagato?  Eventuali indagini in corso non risultano dai cosiddetti “carichi pendenti”. Questo certificato, infatti, contiene solamente i processi per cui sei attualmente imputato, non anche le semplici indagini. In pratica, il certificato dei carichi pendenti ti dice in quali giudizi sei imputato, ma nulla dice in merito a eventuali investigazioni in corso. Nei carichi pendenti non sono dunque riportati i procedimenti definiti con sentenza irrevocabile, né quelli ancora nella fase delle indagini preliminari, ma solo i procedimenti per i quali è stata esercitata l’azione penale e non è intervenuta sentenza definitiva. Per questa ragione, l’unico modo per sapere se sei indagato è di fare istanza ex art. 335 c.p.p. alla Procura della Repubblica. Cosa posso fare se sono indagato? Se a seguito di istanza in Procura o di avviso di garanzia scopri di essere indagato, non farti prendere dal panico: la prima cosa che devi fare è consultare un avvocato, il quale ti suggerirà quali sono i passi utili da compiere. Devi sapere, però, che le indagini, fino a che non saranno concluse, sono coperte dal più assoluto riserbo: pertanto, non potrai chiedere di visionare il fascicolo del pubblico ministero, né tantomeno potrà farlo un avvocato per te. A questo punto, visto che non puoi vedere i documenti che ci sono in Procura, probabilmente ti starai chiedendo: «A cosa serve sapere che sono indagato?». Sapere di essere sotto la lente degli inquirenti ti consente non solo di nominare un avvocato per consigliarti con lui, ma anche di compiere alcune attività importanti, come:   – depositare memorie difensive;   – chiedere di incontrare il pubblico ministero che segue le indagini per poterci parlare in maniera informale;   – incaricare il proprio avvocato di compiere investigazioni difensive, consistenti ad esempio nel raccogliere dichiarazioni di persone che hanno assistito ai fatti;   – riconciliarsi con la presunta persona offesa, magari offrendo anche un risarcimento, ottenendo così la remissione della querela e la conseguente estinzione del procedimento (se il reato non è procedibile d’ufficio);   – eleggere domicilio presso il proprio difensore, cosicché ogni comunicazione non giungerà più a casa tua. Questo ti consentirà di mantenere un certo riserbo con i vicini e i tuoi stessi familiari (nel caso in cui tu non voglia far sapere nulla), oltre che consentirti di spostarti senza temere che qualche notifica vada perduta.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Certificato carichi pendenti: cos’è e a cosa serve

Il certificato dei carichi pendenti, previsto dagli artt. 6-8 del TU Casellario giudiziale, è un documento che contiene i procedimenti penali in corso a carico di un soggetto e viene rilasciato su richiesta Cos’è il certificato dei carichi pendenti Previsto e disciplinato dagli articoli 6-8 del Testo Unico casellario giudiziale D.P.R. n. 313/2002, il certificato dei carichi pendenti è un documento da cui risultano i procedimenti penali in corso (anche presso le procure distrettuali antimafia) a carico di un determinato soggetto, compresi eventuali giudizi di impugnazione. Indica quindi la presenza o meno di carichi pendenti, a differenza del certificato del casellario giudiziale che indica la presenza di provvedimenti di condanna a carico del soggetto. Il certificato ha una validità di sei mesi dalla data di rilascio. Le iscrizioni nel casellario sono eliminate:   – al compimento dell’ottantesimo anno di età o per morte della persona alla quale si riferiscono;   – alla cessazione della qualità di imputato ex art. 60, comma 2, c.p.p. Cosa si intende per carico pendente Per fare chiarezza, il carico pendente è una definizione di natura penalistica che descrive lo status del soggetto imputato (non più indagato quindi nelle indagini preliminari) che ha a suo carico dei procedimenti penali pendenti, ossia ancora in corso. Cosa contiene il certificato dei carichi pendenti Il certificato dei carichi pendenti, si limita ad indicare l’esistenza (o meno) dei carichi pendenti che risultano a carico di un determinato soggetto e per questo si distingue, quindi, dal certificato del casellario giudiziale, che attesta invece la presenza di provvedimenti di condanna a carico del soggetto. Le iscrizioni riportate nel certificato dei carichi pendenti si riferiscono soltanto ai processi in corso (e ai relativi giudizi di impugnazione) innanzi al tribunale a cui accede la specifica procura dove il certificato è stato richiesto. Nel certificato però non risultano alcune iscrizioni, espressamente previste dall’art. 27 del T.U. del Casellario (ad esempio, le sentenze di condanna per le quali è stato concesso il beneficio della non menzione; i provvedimenti emessi dal Giudice di pace; le condanne per contravvenzioni punibili con l’ammenda; ecc.). Chi può richiederlo Il certificato può essere richiesto:  – dall’interessato o da soggetto da lui delegato;   – dalle PP.AA. o dai gestori di pubblici servizi, quando è necessario per l’espletamento delle loro funzioni;   – dall’autorità giudiziaria penale, che provvede direttamente alla sua acquisizione;   – dal difensore della persona offesa dal reato e del testimone.   In alcuni casi, il soggetto interessato non può richiedere personalmente il rilascio del certificato:   – per i minori di anni 16, la domanda deve essere presentata dal soggetto che ne esercita la potestà genitoriale;   – per gli interdetti, la domanda deve essere presentata dal tutore, che deve esibire il decreto di nomina;   – per la persona detenuta (o che è stata inserita in una comunità terapeutica), la richiesta può essere inoltrata per posta o a mezzo di un delegato, o, se sprovvista di documenti, con richiesta vistata dal direttore o dall’ufficio matricolare del carcere;   – per le richieste dall’estero, la domanda può essere presentata dall’interessato per posta o tramite un delegato. Dove si richiede Il certificato dei carichi pendenti, in attesa che venga attivato il casellario nazionale dei carichi pendenti, può essere richiesto a qualsiasi procura della Repubblica, indipendentemente dal luogo di nascita o residenza dell’interessato. Il certificato infatti, anche se in genere viene richiesto alla Procura che corrisponde al luogo di residenza dell’interessato, può essere rilasciato anche da una Procura diversa. In questo caso dal certificato emergeranno i procedimenti pendenti presso il relativo tribunale. Se infatti l’interessato vuole conoscere le pendenze in corso presso più uffici giudiziari, non deve fare altro che presentare la richiesta del certificato a tutte le procure della Repubblica interessate (ciò fino a quando non verrà attivato il casellario nazionale dei carichi pendenti). Per i minori il certificato è rilasciato dalla procura presso il tribunale per i minorenni. Come si richiede il certificato dei carichi pendenti La richiesta può essere presentata direttamente dall’interessato (o dal suo delegato) mediante l’apposito modello (disponibile sul sito del ministero della giustizia e qui sotto in pdf) unitamente al modello di delega), muniti di un valido documento di riconoscimento ovvero per posta. I cittadini extracomunitari che non hanno il passaporto devono allegare alla domanda la copia del permesso di soggiorno. L’interessato non è tenuto a motivare la richiesta del certificato dei carichi pendenti, salvo precisare l’uso cui è destinato se ne richiede il rilascio gratuito. Certificato carichi pendenti online Il sito del ministero della Giustizia, nella pagina dedicata all’interno della sezione “servizi al cittadino” offre la possibilità di prenotare online il certificato dei carichi pendenti presso qualsiasi ufficio locale del casellario. Per effettuare la prenotazione è necessario scegliere l’ufficio presso cui si andrà a ritirare il certificato, compilare, quindi inoltrare la richiesta di prenotazione on-line e stampare la ricevuta da presentare allo sportello dell’ufficio locale scelto. Il certificato, una volta pronto, sarà consegnato dopo aver pagato l’imposta di bollo e i relativi diritti di certificato, che come vedremo, possono essere con o senza urgenza. Fino a quando la richiesta non è presa in carico dall’ufficio, è possibile cancellare la prenotazione. Quanto costa il certificato carichi pendenti Ogni certificato dei carichi pendenti costa nel complesso 19,92, di cui 16 euro per la marca da bollo (una ogni due pagine) e 3,92 euro per i diritti di certificato. Inoltre, se il certificato è richiesto con rilascio nella stessa giornata devono essere pagati altri 3, 92 euro per i diritti di urgenza. Certificato carichi pendenti gratis Solo in alcuni casi il certificato dei carichi pendenti è gratuito, ossia quando lo stesso deve essere prodotto:   – nelle controversie di lavoro, previdenza ed assistenza obbligatoria (art. 10 L. 533/73);   – nelle procedure di adozione, affidamento di minori e affiliazione (art. 82 L.184/83);   – in un procedimento nel quale la persona è ammessa a beneficiare del gratuito patrocinio (art. 18 D.P.R. 115/2002) o deve essere unito alla domanda di riparazione dell’errore giudiziario (art. 176 disp.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Videosorveglianza e privacy

Videosorveglianza, solo l’8% delle telecamere sono segnalate da un regolare cartello, ma a chi le installa la privacy interessa poco o niente. Le città italiane sono sempre più digitali e invase dalle telecamere, ma per evitare di andare verso una società del controllo indiscriminato e non incorrere nelle pesanti sanzioni che sono previste dal GDPR è necessario cambiare urgentemente traiettoria rispetto agli scenari attuali. Da un lato, è promettente il comunicato diramato il 13 aprile 2022 dal Ministero dell’Interno, che rende nota la prossima erogazione di 27 milioni di euro a favore di 416 comuni che sono stati ammessi al finanziamento ministeriale per il potenziamento dei propri impianti di videosorveglianza, anche se adesso i rispettivi uffici tecnici e gli organi di polizia locale che hanno ottenuto il via libera per accedere ai contributi economici dovranno affrettarsi a preparare i relativi progetti tecnici esecutivi in linea con tutte le prescrizioni delle leggi vigenti. Tra le normative da rispettare, i comuni dovranno prestare particolare attenzione a quelle riguardanti la tutela della privacy e la protezione dei dati personali, e non si tratta di un compito di poco conto che può essere considerato un mero adempimento burocratico da gestire sbrigativamente, non solo per la complessità delle stesse norme, ma soprattutto perché in Italia il 71% delle sanzioni per violazioni del GDPR sono state irrogate proprio nei confronti di enti pubblici, i quali si trovano quindi a camminare su un terreno che per loro è tipicamente scivoloso. E se nel secondo semestre del 2021 il Garante aveva già puntato la lente sulla conformità dei trattamenti di dati personali effettuati attraverso le telecamere, non è certamente un caso che per il secondo semestre consecutivo, anche nel piano delle attività ispettive della prima metà del 2022 l’Authority abbia di nuovo inserito il controllo dei sistemi di videosorveglianza, denotando così le proprie intenzioni di continuare a monitorare attentamente quello che è ormai uno degli ambiti più invasivi per la privacy dei cittadini. A destare particolare preoccupazione, sono adesso i risultati che emergono da uno studio condotto da Federprivacy in collaborazione con Ethos Academy con l’obiettivo di fornire un quadro realistico sul rispetto della privacy nel mondo della videosorveglianza, esaminandone gli scenari da varie angolazioni con la mira di comprendere le tendenze e le percezioni di addetti ai lavori e cittadini, individuare i gap che ostacolano la conformità alla normativa in materia di protezione dei dati personali, ed essere così in grado di individuare più facilmente i fabbisogni per tracciare la corretta traiettoria verso un’espansione coerente dei sistemi di videosorveglianza, con particolare riguardo allo sviluppo sostenibile delle smart city. Nello studio “Videosorveglianza & Privacy tra cittadino, professionisti e imprese”, articolato in diverse fasi e indirizzato a tre distinte categorie di soggetti presi in esame, è stato effettuato un sondaggio su un campione di circa 2.000 cittadini chiedendo loro cosa osservano quando entrano in un esercizio pubblico dotato di un impianto di videosorveglianza: solo nell’8% dei casi risulta essere esposto un regolare cartello di informativa minima che avverte in modo chiaro e trasparente la presenza di telecamere con l’indicazione dei corretti riferimenti normativi e delle informazioni complete che devono essere fornite all’interessato. Per il 38% delle telecamere non c’è invece nessun cartello che ne mette a conoscenza il cittadino, a indicare che chi le ha installate non si è neanche posto il problema di dover rispettare una normativa in materia di privacy. E anche se nel restante 54% dei casi l’interessato prende atto che è esposto un cartello, tuttavia questo risulta poi del tutto inadeguato a causa di riferimenti normativi obsoleti o sbagliati o privo delle informazioni che vi dovrebbero essere riportate. Nonostante le Linee guida n. 3/2019 elaborate dal Comitato Europeo per la protezione dei dati (Edpb) abbiano provveduto da più di due anni un nuovo modello di cartello per segnalare la presenza di un sistema di videosorveglianza in conformità al GDPR, sono infatti ancora diffusissimi vecchi cartelli che fanno riferimento all’abrogato art.13 del Dlgs 196/2003, che spesso non risultano neppure compilati con le indicazioni del titolare del trattamento e delle finalità delle telecamere lasciate negligentemente in bianco. Sul fronte delle imprese, l’Osservatorio di Federprivacy ha invece effettuato una approfondita disamina di tutte le oltre mille sanzioni comminate dall’introduzione del Regolamento europeo, e ben 161 di queste (15,2%) sono direttamente riferite a violazioni commesse attraverso telecamere e impianti di videosorveglianza, per un ammontare complessivo di circa 3,9 milioni di euro che imprese private e pubbliche amministrazioni hanno dovuto sborsare a causa della loro noncuranza delle regole sulla tutela della privacy. Rileva il fatto che ben 130 di tali sanzioni (pari all’80% del totale) siano state elevate negli ultimi due anni, a significare un aumento esponenziale che si registra per le violazioni derivanti dall’uso illecito di telecamere. Molti cartelli di informativa sulla videosorveglianza riportano ancora i riferimenti normativi della vecchia Legge 675/1996 Nel panorama europeo, lo studio ha inoltre evidenziato che in Spagna viene comminato il maggior numero di sanzioni in materia di videosorveglianza. Dall’entrata in vigore del GDPR, l’autorità per la protezione dei dati spagnola (AEPD) ha infatti adottato ben 82 provvedimenti per questo tipo di infrazioni. E se autorità di paesi come Italia, Austria, Germania, Romania, e Lussemburgo fanno la loro parte, vi sono però diversi altri garanti che evidentemente al momento si concentrano su altre tipologie di violazioni, oppure in quelle nazioni il fenomeno dell’inosservanza delle regole sulla privacy afferenti i sistemi di videosorveglianza è più contenuto rispetto alla nostra realtà. Se imprese e pubbliche amministrazioni risultano spesso non conformi alla normativa in materia di protezione dei dati personali quando si dotano di sistemi di videosorveglianza, a quanto pare le principali cause sono però da rinvenire nelle mani a cui si affidano. Infatti, nella parte dello studio rivolta agli installatori e agli operatori della sicurezza fisica, sono emerse notevoli carenze e mancanza di consapevolezza che spiegano in buona parte i pessimi risultati di cui la maggior parte dei cittadini intervistati si rende conto. Su un campione di 1.127 operatori tra progettisti e installatori che hanno

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Quando è lecito controllare la posta elettronica aziendale di un dipendente senza violare la sua privacy?

Una recente sentenza del Tribunale di Genova, relativa a una dipendente licenziata dopo che il datore di lavoro controllando la sua email aveva scoperto che aveva inviato verso terzi dati riservati, permette di approfondire il tema della liceità delle verifiche sull’email di un lavoratore dipendente anche per scopi difensivi. Si tratta di un tema che rimane sempre di grande attualità e di ampio contrasto tra gli addetti ai lavori rispetto al quale si richiama il Provvedimento generale dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali del 1° marzo 2007 che per quanto datato è ancora valido laddove conforme al Regolamento europeo sulla protezione dei dati n. 2016/679 (GDPR), nonché la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 8, Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ormai presso tutti gli uffici il collegamento ad Internet è molto diffuso, ma non bisogna dimenticare che l’uso di un computer collegato ad una rete esterna deve essere sempre molto accorto e responsabile innanzitutto per ovvie ragioni di sicurezza. Non poche, poi, sono le questioni sorte in merito alla legittimità dell’accesso da parte del datore di lavoro o dirigente alla casella di posta elettronica aziendale del dipendente. Al fine di risolvere tali questioni è opportuno ricordare alcuni importanti concetti:   – l’equiparazione della posta elettronica alla corrispondenza tradizionale la cui libertà e segretezza viene tutelata dall’art. 15 della Costituzione;   – la legittimità del controllo della casella della posta elettronica del proprio dipendente da parte del datore di lavoro alla luce di quanto prescritto dall’attuale disciplina in tema di rapporti di lavoro, compreso lo Statuto dei lavoratori;   – la tutela della privacy alla luce di quanto stabilito dal GDPR. La problematica non è semplice ed il Garante alla luce dei principi di cui sopra è intervenuto già da tempo con un Provvedimento nel quale ha chiarito che i datori di lavoro pubblici e privati non possono controllare la posta elettronica e la navigazione in Internet dei dipendenti, se non in casi eccezionali. Spetta al datore di lavoro definire le modalità d’uso di tali strumenti ma tenendo conto dei diritti dei lavoratori e della disciplina in tema di relazioni sindacali. Ma cosa succede nel caso di messaggi inerenti al rapporto di lavoro? Anche in questo caso opera il divieto di controllo? L’Autorità prescrive innanzitutto ai datori di lavoro di informare con chiarezza e in modo dettagliato i lavoratori sulle modalità di utilizzo di Internet e della posta elettronica e sulla possibilità che vengano effettuati controlli. Il Garante vieta poi la lettura e la registrazione sistematica delle e-mail così come il monitoraggio sistematico delle pagine web visualizzate dal lavoratore, perché ciò realizzerebbe un controllo a distanza dell’attività lavorativa vietato dallo Statuto dei lavoratori (art. 4). Viene inoltre indicata tutta una serie di misure tecnologiche e organizzative per prevenire la possibilità, prevista solo in casi limitatissimi, dell’analisi del contenuto della navigazione in Internet e dell’apertura di alcuni messaggi di posta elettronica contenenti dati necessari all’azienda. Il Provvedimento raccomanda l’adozione da parte delle aziende di un disciplinare interno, definito coinvolgendo anche le rappresentanze sindacali, nel quale siano chiaramente indicate le regole per l’uso di Internet e della posta elettronica. Il datore di lavoro è inoltre chiamato ad adottare ogni misura in grado di prevenire il rischio di utilizzi impropri, così da ridurre controlli successivi sui lavoratori. Per quanto riguarda Internet è opportuno ad esempio:   – individuare preventivamente i siti considerati correlati o meno con la prestazione lavorativa;   – utilizzare filtri che prevengano determinate operazioni, quali l’accesso a siti inseriti in una sorta di black list o il download di file musicali o multimediali. Per quanto riguarda la posta elettronica, è opportuno che l’azienda:   – renda disponibili anche indirizzi condivisi tra più lavoratori (info@ente.it; urp@ente.it; ufficioreclami@ente.it), rendendo così chiara la natura non privata della corrispondenza;   – valuti la possibilità di attribuire al lavoratore un altro indirizzo (oltre quello di lavoro), destinato ad un uso personale;   – preveda, in caso di assenza del lavoratore, messaggi di risposta automatica con le coordinate di altri lavoratori cui rivolgersi;   – metta in grado il dipendente di delegare un altro lavoratore (fiduciario) a verificare il contenuto dei messaggi a lui indirizzati e a inoltrare al titolare quelli ritenuti rilevanti per l’ufficio, ciò in caso di assenza prolungata o non prevista del lavoratore interessato e di improrogabili necessità legate all’attività lavorativa. Qualora queste misure preventive non fossero sufficienti a evitare comportamenti anomali, gli eventuali controlli da parte del datore di lavoro devono essere effettuati con gradualità. In prima battuta si dovranno effettuare verifiche di reparto, di ufficio, di gruppo di lavoro, in modo da individuare l’area da richiamare all’osservanza delle regole. Solo successivamente, ripetendosi l’anomalia, si potrebbe passare a controlli su base individuale. Il Garante della Privacy ha chiesto infine particolari misure di tutela in quelle realtà lavorative dove debba essere rispettato il segreto professionale garantito ad alcune categorie, come ad esempio i giornalisti. Con riferimento allo Statuto dei lavoratori va ricordato, però, che la giurisprudenza della Corte di Cassazione già da un po’ di tempo ha iniziato a rivedere l’applicazione dell’art. 4. Difatti, con sentenza n. 4746 del 2002 la Cassazione ha escluso l’applicabilità di detto articolo ai controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore, i c.d. controlli difensivi. Il ragionamento della Corte, in tal senso, è chiaro: “Ai fini dell’operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori previsto dall’art. 4 l. n. 300 citata, è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dell’ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cosiddetti controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell’accesso ad aree riservate, o gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate. Successivamente, con la pronuncia n. 15892 del 2007, la Corte ha tuttavia ammesso un limite, affermando che i controlli difensivi non possono giustificare l’annullamento di ogni garanzia: “Né l’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti può assumere portata tale

investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Padrone del cane che morde un bambino punibile a prescindere dalla querela

Quando si presenta una denuncia-querela non occorrono formule rigide da rispettare, l’importante è che emerga la volontà punitiva del denunciante che si può desumere dagli atti in base al “favor querelae”  La Cassazione accoglie il ricorso del Procuratore contro la sentenza del Giudice di Pace che ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti dell’imputato per assenza di querela. In realtà, come rileva il ricorrente, la querela è stata presentata, anche se in parte dattiloscritta e in parte a mano e anche se non contiene una frase chiara con la quale il denunciante dichiari di voler perseguire penalmente il padrone del cane che ha morso suo figlio di otto anni su un gluteo. Questo perché la volontà di querelare il soggetto responsabile emerge da altre frasi e termini utilizzati. Questa la motivazione con cui la sentenza della Cassazione n. 16281/2022 ha accolto il ricorso del Procuratore. Senza querela non si procede La vicenda ha inizio quando il Giudice di Pace dichiara di non doversi procedere nei confronti dell’imputato, accusato del reato di lesioni, per difetto di querela. Il soggetto è stato accusato in particolare di aver lasciato libero il proprio cane sulla spiaggia e che questo abbia provocato lesioni a un minore, guaribili in 5 giorni, a causa di un morso su un gluteo. Per il P.M la querela è stata presentata Il Pubblico Ministero nel proporre appello evidenzia un’erronea applicazione della legge poiché il padre del minore ha presentato querela presso il commissariato, da cui emerge la volontà punitiva nei confronti dell’imputato. L’appello del P.M viene riqualificato come ricorso in Cassazione poiché, in base alla decisione del Tribunale, questo soggetto può proporre appello solo nei confronti delle sentenze che applicano una pena diversa da quella pecuniaria. Il Procuratore con memoria chiede l’annullamento della sentenza di appello del Tribunale sottolineando che la denuncia del padre del minore è stata ratificata, condotta che denota una chiara volontà punitiva. Atti da interpretare in base al “favore querelae” Per la Cassazione il ricorso del P.M è fondato. Il Giudice di Pace ha concluso per la mancata presentazione della querela perché il padre del minore, nella denuncia presentata, in parte dattiloscritta e in parte con frasi scritte a mano e in stampatello, ha esposto i fatti, ovvero del morso che il cane dell’imputato ha dato al figlio di 8 anni e all’assenza di qualsiasi scusa da parte del padrone dell’animale. Alla fine del foglio è presente una scritta in cui il padre del minore dichiara di riservarsi sulla nomina di un legale. Per la giurisprudenza di legittimità la denuncia non deve contenere formule sacramentali per la sua validità. E’ sufficiente che risulti la volontà di perseguire il soggetto responsabile per quanto commesso. Il Giudice di Pace ha omesso di considerare che la denuncia in atti contiene un chiaro riferimento alla volontà punitiva quando ad un certo punto lo stesso richiede di essere “informato sugli sviluppi delle indagini” o quando, rivolgendosi alle autorità, chiede di “prendere provvedimenti al più presto.” In conclusione, poiché la querela non richiede formule sacramentali, la volontà di punizione da parte della persona offesa può essere riconosciuta dal giudice anche in atti in cui tale volontà non è espressamente esplicitata. Nei casi in cui emerga tale incertezza, comunque, gli atti devono essere interpretati alla luce del “favor querelae”.

investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_risarcimento danni per violenza sessuale.

Stupro: si può chiedere il risarcimento per danno biologico? I genitori dell’imputato minorenne possono essere costretti a pagare per il reato del figlio?   Ogni reato che provoca anche un danno patrimoniale obbliga il suo autore a pagare il risarcimento. Ad esempio, chi con la propria auto investe un pedone verrà non solo processato per il reato di lesioni stradali colpose, ma dovrà anche risarcire i danni alla salute inferti alla vittima. Ciò vale praticamente per ogni reato che ha causato un pregiudizio, anche di tipo morale. Con questo articolo ci concentreremo su uno specifico argomento: parleremo cioè del risarcimento danni per violenza sessuale. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha stabilito che l’abuso sessuale, causando una ferita insanabile nella vittima, costituisce un vero e proprio danno biologico permanente, alla stregua di quello che si patisce a causa di un sinistro stradale oppure di un’aggressione fisica molto grave. Il provvedimento in commento è molto importante perché permette di comprendere come l’autore del reato debba risarcire tutti i danni, anche quelli che non sono visibili immediatamente. Se l’argomento ti interessa, prosegui nella lettura: vedremo insieme come funziona il risarcimento dei danni per violenza sessuale. Quando è violenza sessuale? La violenza sessuale è il reato che commette chi costringe un’altra persona a compiere o subire atti sessuali. Per “atti sessuali” non si intende soltanto il rapporto sessuale completo (la congiunzione carnale), ma qualsiasi coinvolgimento di parti del corpo definibili come “zone erogene”. Sono erogene quelle parti capaci di stimolare l’istinto sessuale (organi genitali, cosce, labbra, collo, seno, ecc.). Dunque, sono stupro tutti i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti delle zone erogene, anche se fatti sopra i vestiti, capaci di eccitare chi li compie. Di seguito analizzeremo i casi più frequenti di violenza sessuale. Per la giurisprudenza, anche un solo bacio, se dato su una zona erogena, può costituire violenza sessuale. Si pensi al bacio sulle labbra oppure a quello sul collo, quando sono estorti alla vittima senza il suo consenso. Secondo la Cassazione, anche il bacio sulla guancia, se dato in maniera subdola e accompagnato da complimenti non graditi, può integrare il reato di violenza sessuale. C’è diritto al risarcimento dei danni? Secondo la legge, ogni reato che ha provocato un danno (patrimoniale o non patrimoniale) obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che devono rispondere per il fatto di lui (come ad esempio i genitori, nel caso di imputato minorenne). Dunque, è chiaro che da un illecito penale può derivare una doppia responsabilità:   – penale, con conseguente possibilità di condanna alla reclusione;   – civile, da cui consegue l’obbligo di pagare i danni. È il caso, visto in apertura, dell’incidente stradale da cui sia derivato il ferimento o la morte di una persona, del danneggiamento violento di un bene, della rapina terminata non solo con la sottrazione del bottino ma anche con le lesioni ai danni della vittima. Anche nell’ipotesi di violenza sessuale spetta quindi il risarcimento a favore della vittima. Come diremo a breve, il colpevole può essere condannato a pagare non solo il danno morale ma perfino quello biologico, relativo alla lesione dell’integrità fisica della persona offesa. Che tipo di danno va risarcito? Secondo l’ordinanza della Suprema Corte citata in apertura, la violenza sessuale comporta per la vittima una ferita insanabile che può essere equiparata a tutti gli effetti a un danno biologico permanente. In altre parole, per i giudici, l’abuso sessuale ai danni di una persona, soprattutto se minorenne, è un fatto talmente grave da causare una lesione all’integrità fisica della vittima, tale essendo appunto il danno biologico. La vittima di stupro, quindi, ha diritto non solo al risarcimento per i danni morali, consistenti nella sofferenza interiore patita a seguito della violenza, ma anche al danno biologico. E infatti, l’integrità di una persona ricomprende non solo l’aspetto più prettamente fisico, ma anche quello psichico. Il danno biologico consiste quindi nella lesione che può intaccare tanto l’integrità fisica (la classica ferita lacero-contusa, tanto per intenderci) quanto quella psichica. Chi subisce una violenza sessuale, dunque, patisce un danno biologico a tutti gli effetti, al quale può poi perfino aggiungersi quello morale, consistente nel turbamento dello stato d’animo della persona offesa. Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione, alla vittima minorenne di violenza sessuale è stata riconosciuta un’invalidità del 25% conseguente allo stupro subito. Secondo i supremi giudici, per la donna vittima della violenza sessuale l’abuso resta una piaga nell’anima, a nulla rilevando che in seguito ella sia sposata e abbia avuto un figlio. Chi paga i danni? Secondo la Corte di Cassazione, se l’autore della violenza sessuale è un minorenne, allora per i danni rispondono anche i genitori, colpevoli di aver impartito una cattiva educazione al proprio figlio. Come si chiedono i danni? La vittima di una violenza sessuale può chiedere il risarcimento dei danni direttamente nel processo penale, costituendosi parte civile con l’assistenza necessaria di un avvocato. All’esito del processo, se il giudice ritiene provata la responsabilità penale dell’imputato, condanna quest’ultimo non solo alla reclusione ma anche al pagamento dei danni a favore della vittima, nei limiti della prova raggiunta nel giudizio penale. Per chiedere il risarcimento dei danni per violenza sessuale potrebbe essere necessario rivolgersi al tribunale civile anziché a quello penale. Ciò avviene quando il giudice penale non ha quantificato i danni (ad esempio, perché non aveva elementi idonei per poterlo fare) oppure quando non ci si è potuti costituire parte civile. È ciò che è accaduto nella pronuncia della Cassazione più volte richiamata. La vittima di stupro doveva intraprendere un separato giudizio civile per vedersi riconosciuti i danni (sia dal colpevole che dai suoi genitori) in quanto, all’epoca dei fatti, anche l’imputato era minorenne e la legge proibisce la costituzione di parte civile nel processo minorile. Ecco perché si è dunque resa necessaria una causa civile per ottenere il risarcimento dei danni per violenza sessuale.

Investigatore Privato, Agenzia IDFOX Milano_Quali sono le principali attività degli investigatori privati?

Le indagini svolte possono essere utilizzate come prove in tribunale? Chi vuole far valere un proprio diritto in giudizio deve fornire le prove che sono a fondamento dello stesso. Ad esempio, chi agisce per ottenere la restituzione di una somma di denaro deve provare che il credito esiste, magari esibendo in giudizio un contratto o una cambiale; chi vuole ottenere l’addebito della separazione dovrà dimostrare che il coniuge è stato infedele oppure che è venuto meno agli altri obblighi matrimoniali. Proprio perché, per legge, bisogna sempre provare le proprie ragioni, molti si affidano a un’agenzia investigativa. Cosa fa? Come vedremo di qui a breve, l’attività degli investigatori può essere davvero molto utile in giudizio, a volte perfino determinate per ottenere la vittoria. L’errore che non si deve commettere, però, è di pensare che l’investigatore privato abbia poteri speciali riconosciutigli dalla legge, come ad esempio quello di perquisire persone o di ispezionare luoghi. Queste funzioni sono attribuite solamente alla polizia giudiziaria e, pertanto, non ci si può attendere che l’investigatore possa fare cose tipo intercettare chiamate, in quanto altrimenti commetterebbe reato. Ma allora cosa fa un’agenzia investigativa? Scopriamolo insieme. Agenzia investigativa: cos’è? L’agenzia investigativa non è altro che un’organizzazione che offre al pubblico servizi d’investigazione. In genere, l’agenzia investigativa conta diversi investigatori privati, ognuno dei quali è munito di licenza rilasciata dal prefetto che consente di svolgere attività di vigilanza e di investigazione o ricerca per conto di privati. Agenzia investigativa: quali sono i suoi compiti? L’agenzia investigativa si occupa di compiere indagini per conto di privati. Questo tipo di investigazioni riguardano quasi sempre l’ambito civile, ma nulla esclude che possano essere compiute anche nel settore penale. Alle agenzie investigative ricorrono non solo i privati cittadini ma anche i professionisti, come ad esempio gli avvocati quando devono allegare prove (documenti, foto, ecc.) ai propri scritti difensivi. L’agenzia investigativa, dunque, funge da supporto a quanti vogliono intraprendere un’azione giudiziaria; ma non solo: l’attività degli investigatori può essere molto utile anche al di fuori delle aule di giustizia, ad esempio in sede di trattative per l’acquisto di un immobile. Si pensi al venditore che, non fidandosi dell’acquirente, faccia fare delle indagini per capire se, in effetti, il compratore ha la disponibilità economica che promette. Cosa fa un’agenzia investigativa? Vediamo ora cosa fa in concreto un’agenzia investigativa. Per la precisione, un investigatore privato alle dipendenze di un’agenzia può:   – effettuare pedinamenti;   – scattare foto e girare riprese (filmati), purché ciò avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico;   – registrare conversazioni che avvengano in sua presenza;   – effettuare sopralluoghi, purché vi sia il consenso del titolare del posto;   – avvalersi di dispositivi di localizzazione (cosiddetti Gps tracker), ad esempio al fine di monitorare gli spostamenti di una persona o di un’autovettura;   – raccogliere informazioni estratte da documenti di libero accesso (ad esempio, i certificati che possono essere richiesti all’anagrafe comunale);   – collaborare con esperti di scienza forense per il recupero del materiale trovato nei dispositivi digitali (tablet, cellulari, ecc.). Agenzia investigativa: cosa non può fare? Un’agenzia investigativa non può mai infrangere la legge; pertanto, non può:   – intercettare telefonate che avvengono tra altre persone oppure conversazioni tra persone non presenti;   – introdursi in luoghi privati senza permesso;   – effettuare riprese audio e/o video all’interno di privata dimora senza consenso;   – accedere a conto corrente personale o ad altri dati coperti dalla privacy. Le condotte sopra descritte sono punite dalla legge e costituiscono reato. Ad esempio, solo la polizia giudiziaria, su autorizzazione del giudice, può procedere ad intercettazione. Se un investigatore privato effettuasse un’intercettazione (ambientale o telefonica che sia), commetterebbe il reato di interferenze illecite nella vita privata. Agenzia investigativa: le indagini valgono come prove? Le indagini svolte dall’agenzia investigativa possono essere validamente utilizzate come mezzi di prova all’interno di un processo, civile o penale che sia. L’importante, come sopra ricordato, è che l’acquisizione sia avvenuta nel rispetto della legge, non violando i divieti che sono stati elencati nel paragrafo precedente. In questa circostanza, tutte le prove raccolte sarebbero inutilizzabili. Investigatore privato: può testimoniare? Quando le prove raccolte dall’agenzia investigativa non sono sufficienti oppure sono contestate dalla controparte, è possibile chiamare a deporre quale testimone l’investigatore che le ha raccolte in prima persona. Ad esempio, in un processo di separazione, se c’è una foto ritraente uno dei coniugi tra le braccia dell’amante, ma l’immagine è contestata dalla controparte in quanto non viene specificato né il luogo né la data, l’investigatore che ha immortalato gli amanti potrà testimoniare e dire di aver visto la coppia con i propri occhi prima di scattare la foto.