Lo stalking consiste in condotte persecutorie ripetute che incidono sulle abitudini di vita della vittima o generano un grave stato di ansia o di paura
Il reato di stalking (dall’inglese to stalk, letteralmente “fare la posta”) è entrato a far parte dell’ordinamento penale italiano mediante il d.l. n. 11/2009 (convertito dalla l. n. 38/2009) che ha introdotto all’art. 612-bis c.p., il reato di “atti persecutori”, il quale punisce chiunque “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Come si evince dalla lettera della disposizione normativa, inserita nel capo III del titolo XII del Codice penale, nella sezione dei delitti contro la libertà morale, con tale nuova fattispecie di reato, il legislatore, prendendo atto delle richieste formulate a gran voce in tal senso da più parti, ha cercato di dare una risposta sanzionatoria appropriata alle condotte che fino al 2009 venivano inquadrate in altri meno gravi delitti (di minaccia, violenza privata, ecc.); fattispecie che si erano dimostrate spesso inidonee a garantire una tutela adeguata alle vittime a fronte di condotte illecite caratterizzate da maggiore gravità, sia per la reiterazione delle stesse, sia per i loro effetti negativi sulla sfera privata e familiare delle persone offese.
Il testo dell’art. 612-bis c.p.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della legge 104/1992, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
Differenza tra stalking e maltrattamenti in famiglia
Anche se la casistica in astratto enucleabile mostra che spesso vi è un rapporto di natura affettiva, sentimentale o comunque qualificato che lega il soggetto agente alla vittima (ad es. fidanzati o ex mariti gelosi, o anche stalker su “commissione” che commettono il reato al posto di un altro, ecc.), per l’art. 612-bis c.p. lo stalking è un reato comune che può essere commesso da chiunque, anche da chi, dunque, non abbia alcun legame di sorta con la vittima, senza presupporre l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche (Cass. n. 24575/2012).
Ciò costituisce pertanto il discrimine con il più grave reato di maltrattamenti in famiglia (a meno che non intervenga la c.d. “clausola di sussidiarietà” prevista dall’art. 612-bis, comma 1, c.p., “salvo che il fatto costituisca più grave reato” che renderebbe applicabile il reato di cui all’art. 572 c.p.), reato proprio che può essere commesso soltanto da chi ricopra un ruolo nel contesto familiare (coniuge, genitore, figlio, ecc.) o una posizione di autorità o peculiare affidamento nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 c.p. (come organismi di educazione, istruzione, cura, ecc.) (Cass. n. 24575/2012).
Tuttavia, occorre sottolineare, come anche il reato di cui all’art. 612- bis c.p. nell’ipotesi prevista dal secondo comma faccia riferimento ad ambiti latamente legati alla comunità della famiglia, poichè il soggetto attivo di questa forma aggravata, avente natura di reato proprio, è individuato nel “coniuge legalmente separato o divorziato o un soggetto che sia stato legato da relazione affettiva alla persona offesa”.
Il soggetto passivo (la vittima)
Quanto al soggetto passivo, la norma oltre a tutelare la vittima “principale”, oggetto delle molestie dello stalker, estende la propria protezione anche a quanti sono legati alla stessa da rapporti di parentela (prossimi congiunti) o da relazioni affettive.
Il bene giuridico tutelato
Per quanto attiene, infine, al bene giuridico protetto, come si evince dalla stessa collocazione, nel capo III del titolo XII tra i delitti contro la persona, il reato di atti persecutori tutela innanzitutto la libertà morale, intesa quale facoltà dell’individuo di autodeterminarsi.
La fattispecie incriminatrice mira, inoltre, a tutelare gli ulteriori beni giuridici dell’incolumità individuale e della salute, nonché secondo diverse tesi, la tranquillità psichica e la riservatezza dell’individuo, posto che ai fini della configurazione del reato “è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità, dell’equilibrio psicologico della vittima” (Cass. n. 8832/2011).
Finalità perseguita dal legislatore del 2009 sarebbe, dunque, quella di tutelare il soggetto “da comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita e la tranquillità personale, procurando ansie, preoccupazioni e paure, con il fine di garantire alla personalità dell’individuo l’isolamento da influenze perturbatrici” (Cass. n. 25889/2013).
Stalking: le condotte punite e i danni per la vittima
Elemento costitutivo, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 612-bis c.p., è innanzitutto, come dispone la norma, la reiterazione delle condotte persecutorie, idonee, alternativamente, a cagionare nella vittima un “perdurante e grave stato di ansia o di paura”, a ingenerare un “fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva” ovvero a costringerla ad alterare le “proprie abitudini di vita”.
Il delitto di stalking rientra, quindi, nella categoria dei reati abituali (Cass. n. 20993/2012), per la cui configurabilità sono sufficienti anche “due sole condotte di minaccia o molestia” come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (Cass. n. 45648/2013; Cass. n. 6417/2010).
Tipi di condotte
Quanto al contenuto di tali condotte, a titolo esemplificativo, si sottolinea come la giurisprudenza abbia ritenuto, in questi anni, atti persecutori idonei ad integrare il delitto di stalking anche comportamenti che non necessitano della presenza fisica dello stalker (Cass. n. 32404/2010), come: l’invio di buste, sms, e-mail e messaggi tramite internet, nonché la pubblicazione di post o video a contenuto ingiurioso, sessuale o minaccioso sui social network (Cass. n. 14997/2012; Cass. N. 32404/2010); oltre, altresì, al danneggiamento dell’auto della vittima (Cass. n. 8832/2011). Costituiscono esempi di stalking, poi, anche le aggressioni verbali alla presenza di testimoni e i reiterati apprezzamenti, invii di baci e sguardi insistenti e minacciosi (Cass. n. 11945/2010).
Stalking telefonico
Di certo, può considerarsi comportamento idoneo a configurare un’ipotesi di stalking il fare ripetute telefonate alla vittima, da questa ritenute non gradite (Cass. n. 42146/2011). In tal caso si parla, più propriamente, di stalking telefonico.
Whatsapp stalker
Alle telefonate, può essere sostituito l’invio di messaggi tramite una delle applicazioni di messaggistica istantanea più utilizzate dei nostri tempi: Whatsapp. Chi decide di tempestare la vittima utilizzando tale applicazione non si salva dal reato di stalking, se ne sussistono gli ulteriori presupposti caratterizzanti.
Stalking sul lavoro
Si parla, infine, di stalking sul lavoro quando lo stalker agisce in danno di un collega, ponendo in essere una condotta particolarmente odiosa perché avvantaggiata dalla necessaria condivisione di spazi e di un’ampia parte della giornata con la vittima. Anche le iniziative gravemente diffamatorie presso i datori di lavoro della vittima per indurre questi ultimi a licenziarla sono state considerate dalla giurisprudenza idonee a integrare un’ipotesi di stalking (Cass. n. 34015/2010).
Elemento soggettivo del reato di stalking
Per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato è sufficiente il dolo generico, consistente nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia descritte nella norma con la consapevolezza della loro idoneità a produrre taluno degli eventi parimenti descritti nella stessa (Corte Cost. n. 172/2014; Cass. n. 20993/2012; Cass. n. 7544/2012).
Non è necessaria dunque una rappresentazione anticipata del risultato finale, ovvero la coscienza dello scopo che si vuole ottenere, “essendo al contrario sufficiente la costante consapevolezza, nello sviluppo progressivo della situazione, dei precedenti attacchi e dell’apporto che ciascuno di essi arreca alla lesione dell’interesse protetto” (Cass. n. 20993/2013).
In sostanza, bastano la coscienza e la volontà delle singole condotte con la consapevolezza che ognuna di esse andrà ad aggiungersi alle precedenti formando un insieme di comportamenti offensivi (Cass. n. 29859/2015); il dolo si svilupperà dunque in “itinere” quale rappresentazione di tutti gli episodi già posti in essere, della loro frequenza e del nesso che li collega all’ulteriore apporto criminoso (cfr., in dottrina, Garofalo).
Le conseguenze per la vittima
La reiterazione delle condotte, tuttavia, non è sufficiente da sola all’integrazione del reato, occorrendo che le medesime siano idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, in base ad una valutazione di idoneità condotta in concreto dal giudice, sulla base della dimostrazione del nesso causale tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima” (Corte Cost. n. 172/2014; Cass. n. 46331/2013; Cass. n. 6417/2010).
Secondo la giurisprudenza, infatti, si tratta di un “reato abituale di evento, a struttura causale e non di mera condotta” che si caratterizza, per la produzione di un evento di “danno” (consistente, appunto, nell’alterazione delle abitudini di vita, in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, di un fondato timore per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto o di una persona alla quale il soggetto è legato da relazione affettiva), “per la cui sussistenza, dunque, è sufficiente il verificarsi di uno degli eventi previsti” (Cass. n. 17082/2015).
In ordine alle conseguenze causate alla vittima dalle condotte persecutorie, quanto al “perdurante e grave stato di ansia o di paura” sofferto dalla persona offesa, l’orientamento della giurisprudenza (di merito e di legittimità) ritiene che, ai fini della sussistenza del reato de quo, non è necessario l’accertamento di uno stato patologico, essendo sufficiente che gli atti persecutori “abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica” (Cass. n. 16864/2011).
Quanto al “fondato timore per l’incolumità”, rispetto a un iniziale approccio ermeneutico che identificava l’oggetto dell’aggressione nell’incolumità fisica del soggetto, giacchè sola condotta suscettibile di ingenerare appunto un timore fondato, la giurisprudenza ha chiarito che ogni condotta, minacciosa o aggressiva, anche laddove rivolta verso cose e non verso la persona, può integrare il reato di atti persecutori, a patto che, per le modalità di attuazione e la cadenza temporale in cui si è sviluppata, sia idonea a cagionare concretamente uno dei tre eventi richiesti, alternativamente, dalla fattispecie incriminatrice (cfr. Cass. n. 8832/2011).
Per quanto concerne, infine, il riferimento all’alterazione delle “proprie abitudini di vita”, deve intendersi, quel “complesso di comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretto a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria, mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato per l’appunto punibile solo a titolo di dolo” (Corte Cost. n. 172/2014).
La prova dello stalking
Ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, trattandosi di delitto che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ognuno dei quali è idonea ad integrarlo, per la giurisprudenza costante della S.C., non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità (Cass. n. 7042/2013).
La sussistenza del grave e perdurante stato di turbamento emotivo di cui all’art. 612-bis c.p. prescinde, inoltre, dall’accertamento di uno stato patologico conclamato (Cass. n. 40105/2011; Cass. n. 42953/2011), essendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, posto che la fattispecie incriminatrice in parola non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 cod. pen.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (Cass. n. 8832/2011).
La prova dell’evento, dunque, non può che essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, atteso che non può scandagliarsi diversamente “il foro interno” della vittima. Assumono allora importanza, ai fini della prova, sia le dichiarazioni della stessa vittima del reato, sia i “comportamenti conseguenti e successivi alla condotta posti in essere dall’agente e anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata” (Cass. n. 46510/2014; Cass. n. 14391/2012).
Ne deriva che “l’effetto destabilizzante deve risultare in qualche modo oggettivamente rilevabile e non rimanere confinato nella mera percezione soggettiva della vittima del reato, ma in tal senso anche la ragionevole deduzione che la peculiarità di determinati comportamenti suscitino in una persona comune l’effetto destabilizzante descritto dalla norma corrisponde alla segnalata esigenza di obiettivizzazione, costituendo valido parametro di valutazione critica di quella percezione” (Cass. n. 24135/2012).
Pena e circostanze aggravanti
Secondo l’art. 612-bis, primo comma, c.c. (per come modificato dall’art. 1-bis, comma 1, del d.l. n. 78/2013, convertito dalla l. n. 94/2013, che ha elevato il massimo edittale), il reato è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi, salvo che il fatto non costituisca più grave reato.
Al secondo e al terzo comma della disposizione, sono previste due circostanze aggravanti.
Al secondo comma, il legislatore, con il d.l. n. 93/2013, convertito dalla l. n. 119/2013 (c.d. legge sul femminicidio), ha esteso l’aggravante prima circoscritta alle condotte moleste realizzate al di fuori del contesto familiare, agli atti persecutori commessi dal coniuge in costanza di matrimonio o anche separato e divorziato, ovvero da persona, attualmente o in passato legata da relazione affettiva alla vittima, o, ancora, commessi attraverso strumenti informatici e telematici.
In tali casi la pena di cui al primo comma sarà aumentata fino a un terzo.
L’incremento della pena arriverà, invece, fino alla metà se il reato di atti persecutori è stato commesso a danno dei soggetti più deboli (ovvero minori d’età, donne in stato di gravidanza o persone con disabilità di cui all’art. 3 della l. n. 104/1992) o, ancora, se i fatti sono commessi con l’uso di armi o da persona travisata, in ragione della particolare pericolosità delle modalità per l’incolumità della vittima e della loro idoneità ad accrescere l’effetto intimidatorio delle condotte sulla stessa.
Aspetti procedurali
Con riferimento al regime di procedibilità, il delitto di regola è punito a querela della persona offesa.
Il termine per proporre querela è di sei mesi (corrispondente a quello più elevato previsto per i reati di violenza sessuale) e inizia a decorrere “dalla consumazione del reato, che coincide con ‘l’evento di danno’ consistente nella alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante stato di ansia o di paura, ovvero con ‘l’evento di pericolo’ consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto” (Cass. n. 17082/2015).
La remissione può essere soltanto processuale. In ogni caso, la querela è irrevocabile se il fatto è commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui al secondo comma dell’art. 612 c.p. (ovvero minacce gravi commesse con armi o scritti anonimi, in modo simbolico, da persone travisate o da più persone riunite, ecc.).
Il reato diventa procedibile d’ufficio nelle ipotesi delle aggravanti di cui al terzo comma e in particolare nei confronti di un minore o di persona con disabilità ex art. 3 l. n. 104/1992, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si procede d’ufficio.
La questione delle condotte riparatorie
Con la legge numero 103/2017, il codice di procedura penale è stato corredato di un nuovo articolo 163-ter, che prevede l’estinzione del reato per condotte riparatorie e che, rispetto allo stalking, ha avuto in pochi mesi una storia che merita di essere segnalata.
Tale nuova norma, infatti, prevede la possibilità per il giudice di dichiarare l’estinzione del reato quando l’imputato di un reato procedibile a querela soggetta a remissione, entro il termine massimo dell’apertura del dibattimento (salvo proroghe), ha provveduto a riparare interamente il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ad eliminare, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose dello stesso.
Tale disposizione ha subito destato forti critiche circa la sua operatività anche con riferimento a reati particolarmente odiosi come lo stalking, tanto che il legislatore, con il decreto fiscale del 2017 (d.l. n. 148/2017, convertito in l. n. 172/2017), ha previsto l’esclusione dell’applicabilità dell’articolo 163-ter c.p.p. ad ogni manifestazione del reato di atti persecutori. In sostanza, come si legge nella relazione illustrativa, “alla luce dell’elevato numero di donne italiane vittime di stalking” si è reputato “necessario non far ricadere il reato tra quelli per cui è applicabile l’istituto della giustizia riparativa’.
Divieto di avvicinamento
Con il d.l. 11/2009, convertito dalla l. n. 38/2009, il legislatore contestualmente all’introduzione del nuovo reato di atti persecutori, al fine di assicurare una più adeguata protezione alle vittime, ha ampliato lo spettro delle misure cautelari coercitive, attraverso la previsione della nuova misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, ex art. 282-ter c.p.p. (anche se in realtà, pur trattandosi di una misura palesemente legata alla repressione dello stalking, lo strumento si caratterizza per una generale portata applicativa, non vincolata ad una predeterminata tipologia di illecito penale).
Con tale norma entra dunque nell’ordinamento penale una nuova misura cautelare articolata, sotto il profilo oggettivo, in un doppio contenuto.
Al primo comma, infatti, è prevista la prescrizione, rivolta dal giudice all’imputato, “di non avvicinarsi a luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa, ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa”.
Al secondo comma, invece, si prevede che, qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, il giudice possa prescrivere all’imputato “di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dai prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva” alla medesima, ovvero di mantenere una certa distanza da tali luoghi o persone.
Il contenuto della cautela è integrato, ulteriormente, dal terzo comma che vieta all’imputato di “comunicare, attraverso qualsiasi mezzo” con i soggetti protetti ai commi 1 e 2 e con le prescrizioni delle modalità e delle limitazioni imposte dal giudice qualora la frequentazione dei luoghi tra i predetti soggetti sia necessaria per motivi di lavoro o per esigenze abitative (4 comma).
Nel definire le caratteristiche dello strumento, secondo la giurisprudenza, occorre conciliare due esigenze contrapposte: quella di determinare una compressione della libertà di movimento dell’agente in una misura strettamente necessaria alla tutela della persona offesa; quella di garantire che la misura sia sufficientemente determinata, definendo in modo chiaro all’agente i comportamenti da tenere e il controllo sulla corretta osservanza delle prescrizioni allo stesso imposte. La conciliazione di entrambe le esigenze spetta al giudice il quale dovrà, quindi “calibrare” lo strumento, riempendo la misura “di contenuti adeguati agli obbiettivi da raggiungere e rendere la misura sufficientemente determinata, per evitare elusioni o problematiche applicative” (Cass. n. 5664/2015).
Sotto questo profilo, pertanto, a dispetto del nomen iuris unitario conferito alla misura dal legislatore, secondo le tesi giurisprudenziali, la stessa si articola in più fattispecie, differenti per ratio e contenuto oltre che per grado di determinatezza: da una parte, infatti, viene in rilievo il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa e l’obbligo di mantenere una certa distanza dagli stessi; dall’altra, l’obbligo di non avvicinarsi alla stessa persona offesa, ovvero di mantenere una determinata distanza dalla stessa (cfr. Cass. n. 13568/2012).
In quest’ottica, è stata ritenuta non accettabile una misura limitata a generici riferimenti, richiedendo invece necessariamente che il giudice indichi “in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali all’indagato è fatto divieto di avvicinamento, non potendo essere concepibile una misura cautelare, come quella oggetto di esame, che si limiti a far riferimento genericamente ‘a tutti i luoghi frequentati’ dalla vittima”, poiché si finerebbe con l’imporre meramente “una condotta di non facere indeterminata rispetto ai luoghi, la cui individuazione finirebbe per essere, di fatto, rimessa alla persona offesa” (Cass. n. 8333/2015; Cass. n. 5664/2014; Cass. n. 27798/2013; Cass. n. 36819/2011).
Tuttavia, per un recente filone giurisprudenziale, laddove la misura comprenda il mantenimento di una distanza minima dell’agente dalla persona offesa, tale prescrizione “riferendosi alla persona offesa in quanto tale, e non solo ai luoghi da essa frequentati, ed esprimendo la precisa scelta normativa di prioritaria tutela della libertà di circolazione del soggetto passivo, prescinde dalla necessità di determinazione dei luoghi ai quali l’indagato non deve avvicinarsi (tra i quali rientrano comunque quelli abitualmente frequentati quali l’abitazione e il luogo dell’attività lavorativa), dovendo egli comunque mantenere una certa distanza dalla p.o. ovunque essa si trovi” (Cass. n. 38085/2015). Il che comporta che, in caso di incontri casuali (al di fuori degli ambiti abitativo o lavorativo frequentati), l’agente dovrà immediatamente ristabilire la distanza minima imposta, consentendo alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza, “con la conseguenza che il contenuto concreto della misura in questione dovrà modellarsi sulla predetta esigenza” senza che la tutela della libertà di circolazione e di relazione della vittima possa trovare limitazioni di tipo spaziale precostituite (Cass. n. 19552/2013; Cass. n. 36887/2013; Cass. n. 13568/2012).
Ammonimento del questore
Allo scopo di prevenire la consumazione del reato di atti persecutori, l’art. 8 della l. n. 38/2009 ha previsto anche che la persona offesa possa ricorrere alternativamente, prima di proporre eventuale querela, ad una “procedura di ammonimento”.
Tale procedura mira a far desistere lo stalker dalle attività persecutorie attraverso un invito allo stesso rivolto, attraverso le autorità di pubblica sicurezza, a desistere dalle attività persecutorie e ad interrompere ogni interferenza perpetrata nella vita del richiedente.
La procedura si articola in tre fasi: la prima in cui la vittima espone i fatti alle autorità e avanza richiesta al questore di ammonimento (avvertimento verbale) nei confronti dell’autore delle condotte persecutorie; la seconda in cui il questore (ricevuta la richiesta) assume le necessarie informazioni, anche previa convocazione del presunto stalker e delle persone informate dei fatti (Tar Campania, Napoli, n. 114/2011; Tar Calabria, Reggio Calabria n. 1171/2010); la terza, infine, in cui il questore può decidere per il rigetto (laddove non ritenga sufficienti gli elementi raccolti per procedere ovvero, nel frattempo, sia intervenuta querela per il reato) o per l’accoglimento dell’istanza, emettendo l’ammonimento, diffidando l’autore delle condotte a proseguire nelle stesse e invitandolo ad adottare comportamenti conformi alla legge.
L’ammonimento deve avere forma orale e deve essere motivato, a pena di illegittimità (cfr. in tal senso Tar Calabria, Reggio Calabria, n. 1171/2010; Tar Campania, Napoli, n. 114/2011; Consiglio Stato, n. 5676/2011) e di ogni passaggio della procedura deve essere redatto processo verbale, con copie rilasciate sia al richiedente che all’ammonito.
Dalla procedura di ammonimento derivano conseguenze importanti sotto il profilo sanzionatorio nei confronti del soggetto ammonito: oltre a possibili sospensioni delle autorizzazioni per la detenzione di armi e munizioni, laddove il soggetto non ottemperi all’invito formulato dall’autorità e insista nel perpetrare le proprie condotte persecutorie, andrà incontro, in caso di condanna per il reato ex art. 612-bis c.p., ad un aumento della pena e il delitto diventerà procedibile d’ufficio.