Investigatore Privato_Diffamazione aggravata a mezzo Facebook

Diffamazione aggravata a mezzo Facebook

Facebook è mezzo idoneo a offendere la reputazione altrui e ad integrare il reato di diffamazione aggravata. Ecco cosa dice la giurisprudenza

Il reato di diffamazione aggravata

Il reato di diffamazione aggravata è contemplato dall’art 595 c.p comma 3. Prima però di vedere la forma aggravata di questo illecito penale chiariamo subito che il reato di diffamazione si configura quando chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. La pena base prevista in questo caso è la reclusione fino a 1 anno o la multa fino a 1032,00 euro.
Nel caso invece in cui, come previsto dal comma 3 dell’art 595 c.p. “l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da 6 mesi a 3 anni o della multa non inferiore a 516 euro.

E’ sufficiente raffrontare la pena della reclusione base prevista dal comma 1 con quella contemplata dal comma 3 per comprendere che la gravità della diffamazione dipende dal mezzo utilizzato. E’ indubbio infatti che diffamare una persona a una festa a cui partecipa un numero limitato di persone, è ben diverso dal commettere la stessa azione a mezzo stampa o pubblicando un post su Facebook, il social network più diffuso e usato al mondo con oltre due miliardi di utenti attivi.

Facebook e diffamazione aggravata: la posizione della Cassazione

Del resto come chiarito dalla Cassazione nella sentenza n. 30737/2019: la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico.

La esposizione della propria idea in siffatti contesti, quindi, lungi dall’essere cautelata da una sorta di immunità da web, è, piuttosto, ‘aggravata’ per la capacità amplificativa del mezzo adoperato. Questo si risolve in una sostanziale cassa di risonanza che si differenzia dalla stampa per essere tendenzialmente più circoscritta, ma non per questo è dotata di minore potenzialità negativa, anche perché, a differenza di quella, non è oggetto di controlli specifici ed al contempo è considerata quasi come un luogo, virtuale, in cui poter dire tutto ciò che si pensa.

Accusare l’ex di non provvedere al figlio su Facebook lede la sua reputazione

La premessa sul reato di diffamazione aggravata è indispensabile per comprendere la recente sentenza n. 574/2019 del Tribunale di Campobasso, che ha ritenuto responsabile del reato di diffamazione aggravata una donna, che con un post pubblicato su Facebook, ha accusato l’ex, peraltro in modo non corrispondente alla realtà, di non provvedere economicamente ai bisogni primari del figlio, facendolo apparire così, agli occhi degli utenti del social network, come un padre del tutto incurante e disinteressato alle necessità del minore.

A colpire gli utenti del social, che hanno iniziato immediatamente a commentare, è stata soprattutto la frase “non passi un euro a tuo figlio”, considerata dal padre del bambino, come lesiva della sua reputazione, tanto che, sporgendo querela nei confronti della ex, ha avviato il procedimento penale a carico di quest’ultima. Al giudice la donna ha dichiarato di aver detto la verità, il padre si è difeso affermando di aver saltato solo 5 mensilità dell’assegno di mantenimento e di essersi rivolto al Tribunale per chiedere l’affidamento esclusivo del figlio.

Sulla decisione finale del Tribunale ha pesato anche il paragone che la donna ha evidenziato nei post tra il padre del bambino e il suo nuovo compagno, esaltato per il “ruolo paterno” che riveste nei confronti di un figlio non suo. Il giudicante ha pertanto ritenuto che fare affermazioni non coincidenti con la realtà dei fatti su una piattaforma pubblica come Facebook, sicuramente ha recato un pregiudizio alla persona offesa “minandone la considerazione sociale, con una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.”

Su Facebook la diffamazione è aggravata anche se non si fanno nomi

Interessante anche il caso di cui si è occupata la Cassazione nella sentenza n. 17944/2019. L’imputato in questa vicenda è stato accusato del reato di diffamazione aggravata di cui all’art. 593 comma 3 c.p. per aver pubblicato su Facebook un’intervista legata ad un suo precedente articolo pubblicato anch’esso sul social network, con il quale avrebbe offeso l’onore ed il decoro di due soggetti – definendoli dei “lenoni”, affermando che gli stessi occupano le attuali posizioni non per meriti professionali, ma sol per aver procacciato, “ai potenti di turno”, “signorine più o meno compiacenti”-

Accuse da cui l’imputato si è difeso sostenendo di non aver “indicato i nomi dei querelanti nell’ambito dell’intervista rilasciata.” Peccato che per la Cassazione questo elemento di difesa non abbia rivestito alcun valore. La stessa ha affermato infatti che non osta all’integrazione del reato di “diffamazione l’assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone, e che, qualora l’espressione lesiva dell’altrui reputazione sia riferibile, ancorché in assenza di indicazioni nominative, a persone individuabili e individuate per la loro attività, esse possono ragionevolmente sentirsi destinatarie di detta espressione, con conseguente configurabilità del reato di cui all’art. 595 cod. pen.”

Accusare il capo su Facebook di atteggiamenti autoritari è diffamazione aggravata

Attenzione infine anche ai commenti negativi nei confronti dei superiori pubblicati su Facebook. Il caso che ha dovuto affrontare la Cassazione nella sentenza n. 49506/2017 riguarda infatti un operaio, accusato di diffamazione aggravata ai sensi dell’art 590 comma 3, per aver offeso la reputazione del proprio capo area “mediante la diffusione, via internet, attraverso il social network “Facebook”, di messaggi, contenenti riferimenti ad atteggiamenti autoritari del medesimo, nei confronti degli operai dell’area lavorativa.”

Il ricorrente si è difeso evidenziando l’assenza di contenuti offensivi in grado di ledere l’onore e il decoro della persona offesa, ma per la Cassazione “Le frasi, riportate nel testo del provvedimento impugnato, fanno un chiaro riferimento al ruolo del (capo area) , peraltro citato, sia pure per perifrasi, con un contenuto immediatamente offensivo, in quanto evocativo di una gestione autoritaria, ironicamente portata alle estreme conseguenze, in un apparente gioco delle parti.”

 

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